© Fotografia di Marco Thomas

Antonio Dentice d’Accadia – Inediti

Antonio Dentice d’Accadia, nato a Caserta, classe ‘83. Saggista, divulgatore e giornalista. Ideatore di Rubrics, piattaforma pluri-specialistica con vari autori tra Europa e Asia, consigliata e promossa dal Corriere della Sera (Ed. Milano). Cronista di varie tradizioni mistiche. Ha curato la divulgazione artistico-letteraria e scientifica anche di grandi nomi nazionali e internazionali. Ospite di vari storici enti, tra cui: la Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo, l’Accademia Tiberina, l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, l’Ordine degli Odd Fellows della Svizzera, il Festival “Economia e Spiritualità” di Lucca, organizzato dall’Università di Pisa e promosso dalla Commissione Cultura del Senato. Per la poesia, risulta finalista al Premio Internazionale di Poesia “Wislawa Szymborska” (2023). Pubblicato sul periodico italo-olandese “Il Cofanetto Magico” (2023) e sulla sezione online di “Atelier Poesia” (2023). Autore del saggio “Fisica della poetica” (Palawan, 2018), studio dedicato a Giuseppe Limone, uno dei maggiori filosofi e poeti italiani viventi, da cui si riceve un acrostico nel 2023. Tradotto in spagnolo nel progetto del “Centro Cultural Tina Modotti” (Buenos Aires), a cura di Antonio Nazzaro (2023). Più volte relatore al ventennale “Premio Letterario Nazionale Le Nuvole-Peter Russell” del Presidente Maria Pia De Martino, principale erede del Russell.

 

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Bocca del nulla

 

Sciami invisibili,
farfalle di pulviscoli ingrati.

L’arabesco arcobaleno è sciolto nella coppa insapore,
dove si mescolano insetti e tori.

Pungimi l’anima acerba che gattona nel perimetro di Dio
e dimmi che sono giuste sulla bocca di nulla,
quelle parole.

Domande gocciolano arrese anticipate dai silenzi
e giocando all’astronauta affievoliscono tra nuvole e pantani.

Il veleno da un seme,
fior di cura.

Dimmi,
che parole sono giuste sulla bocca del nulla?

Ho dimenticato di esserci e son caduto.

 

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Su lingua di formica

 

Percettori di coscienza germogliano verticali al di là dell’intorpidimento.

 

Han raccolto gli echi tra le corolle in fiore,
oltre gli alligatori che abbaiano riverberi nello stagno onirico.

La finestra è conclusa in un senso compiuto.

Il tempo soffia indebolito e gratificato.
Sazio di lacrime s’acquieta sul fondo,
col ventre gonfio di pietre ingerite come perle.

Il serpente si riscopre lombrico
e il lombrico, granelli di terriccio vergini.

Sulla luna preumana non bandiere, ma Astolfo.

Tuttavia,

trascorse le orbite dell’immondezzaio metallico nello stagno celeste,
cieli antichi si fan novelli nel riflesso dell’iride che osa pellegrina.

Piccola,
fino a sparire,
un Gulliver tra i padri dei titani.

L’elefante riposa su lingua di formica.

 

*

 

Freme febbre

 

Nel sottoscala d’una paziente cerca di parole,
giraffe sporgono convincendosi struzzi,
svenendo alla foce di paradisi rovesci.

Freme febbre e spiega archi di gote,
bifore maculate da sudore
aspirando paracetamolo,
giù nella cattedrale fracassata,
dove l’organo di nervi intona matto ritorno.

Attende il turno migliore,
esclude e graffia punti di partitura.
Incorona tra chiodi
e impasta gemme d’odori,
mentre magra retina si raffina.

Sentimenti opliti forano l’ozono,
calabrone solleone della guarigione
fatta per farsi ospite,
rude giudice desiderato.

Casca latente,
mugola serene sere liquefatte
e in quel Niagara ripesca plancton d’ognibene
da pesci di cristallo.

Sale dal chiasso di moka,
Grazia concessa al brivido stinto.
Para e boccia lodi,
questa roba mi esagera!

È l’ora del vedo e ancora vivo.

 

 

© Fotografia di Marco Thomas