Evaristo Seghetta Andreoli è nato in Umbria, a Montegabbione, dove attualmente vive. Studi classici e giuridici, già bancario di professione. Membro di varie associazioni culturali, collabora con riviste letterarie, ed è fra i giurati di alcuni premi di poesia tra cui il Città di Acqui Terme. Testi e recensioni delle sue opere sono comparse su quotidiani e riviste letterarie italiane e straniere, tra cui “La Lettura – Corriere della Sera”, “Treccani”, “I limoni”, “Gradiva”. Ha pubblicato le raccolte I semi del poeta (Polistampa, 2013); Inquietudine da imperfezione (Passigli, 2015; Premio Firenze Mario Conti Fiorino D’Oro, Premio Mario Luzi); Morfologia del dolore (Interlinea, 2015); Paradigma di esse (Passigli, 2017; Premio Città di Sassari); In tono minore (Passigli, 2020; Premio Cecco d’Ascoli); Il geranio sopra la cantina (Puntoacapo, 2023; Menzione Premio Camaiore).
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In Epiloghi, Evaristo Seghetta Andreoli ci conduce in un viaggio poetico attraverso il tempo, la memoria e la natura, intrecciando riflessioni intime e visioni universali. Il paesaggio, spesso quello della campagna umbra, diventa specchio dell’anima, spazio di meditazione e luogo di attese e rivelazioni. Le poesie, dal tono crepuscolare e a tratti elegiaco, esplorano il senso della fine – delle stagioni, degli affetti, dei giorni – senza rinunciare alla luce sottile della speranza. Con una lingua essenziale e raffinata, Seghetta Andreoli costruisce versi densi di immagini evocative: gli ulivi parlano al poeta, le librerie custodiscono messaggi in bottiglia, la città di pianura si dissolve nella nebbia del ricordo. Ogni componimento è un frammento di un più ampio resoconto esistenziale, dove il dolore dei distacchi si mescola alla bellezza della persistenza. Un libro che attraversa il tempo con grazia e malinconia, capace di toccare corde profonde in chi legge. Epiloghi è un invito alla contemplazione, alla riscoperta del valore delle piccole cose e alla ricerca di un senso nella dissolvenza del presente.
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Cara poesia che sai di chiostro,
di muschio e di fiorita di sambuco,
ormai suono stridente delle ruote
di carri incatenati al giogo di buoi
stanchi: taci e non brilli più.
Se barcolli è perché non resisti
ai progressivi crolli di certezze,
proprio come me, qui, adesso, in assenza
di te e delle tue vane carezze.
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Mario il mio alter ego nel tennis
non suda, non cede, forse soffre
ma non lo dà a vedere,
fuori dal tempo, non ha età.
Appartiene al mondo del mito,
ad un’era che affonda nel sogno.
Con un dito muove la racchetta,
spinge la palla laggiù, in fondo
ai millimetri, prima della riga,
dove regna un equilibrio impossibile
tra il sensibile e il miracoloso.
Lui, una bandiera che lotta contro il vento,
quello arbitrario che confonde
la logica del normale,
danza sull’ultima linea, dà coraggio
anche a me che gioisco e impreco
come Don Chisciotte
come Diogene nel pieno della notte.
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Brutta impressione dire a se stesso
che sei al capolinea, o a fine corsa,
anche se, in buona sostanza è solo una
questione naturale,
però di una certa consistenza,
un dato anagrafico,
una variazione burocratica.
Veramente sono consapevole
di essere nello scaffale d’archivio
che si va assottigliando, rimpiazzato
con schede meno ingiallite
di certo meno ingombranti.
Mentre dico questo
sto guardando fuori dalla finestra,
la piazza è sempre lì, sempre la stessa,
quella dei troppi o pochi anni trascorsi.
Il nostro pallone è forse ancora
quello lasciato all’angolo, in attesa
dei bimbi all’uscita di scuola,
sgonfio e deformato.
Rimbalza ancora.
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© Fotografia di Alessandra Tardio