Gli ottant’anni di Davide Argnani
Intervista a cura di Valerio Ragazzini
Forse arrivo tardi: quando Davide Argnani mi ha scritto per la prima volta si è aperta davanti a me un’intera stagione letteraria ormai lontana, eppure non ancora remota. Arrivo tardi a quella stazione, senza più alcun treno e senza nessun passeggero. Io posso soltanto intuire, inebriarmi dell’odore delle locomotive in frenata. Argnani ha per me quell’odore, l’aria quieta di un silenzioso tramonto dopo un’immane tempesta.
La prima volta che ci parlammo mi raccontò di aver conosciuto personaggi come Aldo Spallicci e Tonino Guerra, e capii subito che ero già in torto: ero io che dovevo cercare lui, e non il contrario. Argnani è il testimone vivente di una stagione che forse non tornerà, ma che ha animato la mia terra, la Romagna. Molti dei suoi protagonisti non ci sono più, ed è proprio allora che ci ritroviamo soltanto con una manciata di libri, è allora che ci sembra d’aver sprecato un’occasione. Abbiamo temporeggiato, ma se solo avessimo rotto ogni indugio, ogni remora, ogni timidezza, forse avremmo bevuto da fonti così limpide da superare ogni immaginazione. Questo mi sembra Argnani: un poeta che compie ottant’anni, che porta in cuor suo il dolore di tutte le guerre in tempi che sembrano di pace; un poeta che veste gli abiti di una stagione che finisce, ma i cui occhi hanno il colore d’un azzurro brillante, due occhi che sembrano sempre sul punto di commuoversi. Argnani non si tira mai indietro, con l’umiltà e la disponibilità di quei monaci eremiti che paiono antichi, ma i cui gesti rivelano un’eterna giovinezza.