Mario Fresa intitola la sua nuova raccolta di poesie “Bestia divina”.
È molto difficile che un titolo riesca a riassumere in maniera esaustiva – o quanto meno calzante – un lavoro poetico. Di solito esso suggerisce un indizio, una chiave di lettura, una traccia compendiaria, che tuttavia non è mai pienamente rispondente all’intero lavoro.
In questo caso, il titolo ossimorico che Mario sceglie per il suo lavoro è straordinariamente preciso, se non nella portata complessiva del lavoro, sicuramente nella descrizione della sua ispirazione generatrice.
In questo libro, la scintilla che innesca la forza poetica è uno schianto: nelle pagine la realtà si consuma senza che essa possa essere in alcun modo interpretata. Ne viene fuori la condizione eterna dell’uomo, completamente esposto agli accadimenti, solo ed incapace di leggerli e di comunicarli. Ho provato una strana forma di piacere a trovare in queste pagine una tanto familiare confusione. La precisione descrittiva della condizione umana, ottenuta non tanto con similitudini e metafore, quanto con una devastante ed impietosa immersione nel caotico vero, ottiene un primo risultato indiretto: un “ridimensionamento” dell’umana facoltà. Immersi in una realtà ormai guastata dalla retorica e dalla finzione delle immagini, questa rincuorante operazione linguistica sembra finalmente parlarci di qualcosa di autentico senza sofisticazioni.
(…) E poi siccome tutto è un puro
asciugarsi, anzi un odore vocabolario, noi siamo piccoli
mostri perciò uniti; siamo carnivora felicità.
L’apparente deposizione di ogni strumento d’indagine che consentirebbe una sistematizzazione teorica della realtà permette all’autore di ottenere una lingua disinibita, folle e geniale. Questo stato alterato, questo stare a metà tra l’istinto estremo della feritas e la geniale lucidità della divinitas è il punto privilegiato di osservazione di Mario Fresa, l’unico possibile per chi sente le parole ormai guaste. Il gusto delle poesie di Mario ha qualcosa che ricorda i pittori del gruppo Cobra, con il loro linguaggio violento, onirico e spaventoso perché potentemente istintivo. Eppure, molti di quei pittori spesso non abbandonano il figurativo, costante polo magnetico con il quale porsi in prolifico rapporto dialettico, sia pur contrastivo.
L’uomo dovrebbe imparare a sentirsi piccolo come una pulce, visto che, come ci ricordano le parole di Jacopo Ortis in esergo “vi sono de’ giorni ch’io non posso fidarmi di me”.
(…) La fissa dolce con gli ultimi, sottili rotoli
notturni sopra di sé; e sta bene sulle ossa
che si credono, quasi, un miracolo
di carne. Appena entrati nella testa delle parole
siamo mercurio, intimità.
In questi versi, l’immagine potentissima delle ossa che si sentono un miracolo di carne, la testa delle parole in cui siamo mercurio ed intimità, fornisce una sintesi tanto forte da essere dolorosa.
Ritorna, infine, Kurt che si fa bello
dentro il sudario treno:
la testa fa poca luce e il giudice lo dice in breve,
a nome mio, come un’oscura resa
che sta al suo fianco
e ride.
I personaggi che Fresa fa sfilare nel corso della sua raccolta hanno qualcosa di caricaturale e di folle che mi ricorda i deliri delle opere rossiniane, che talvolta finiscono in balbettio o comica onomatopea.
Da queste premesse risulta evidente quanto determinante e delicato sia l’uso della lingua, strumento del pensiero per scandagliare la realtà. “Bestia divina” mi ha immediatamente riportato alla memoria un passo della celebre lettera immaginaria scritta da Hugo von Hoffmansthal nel 1902. Lord Chandos scrive al suo mentore F. Bacon per descrivergli i suoi tormenti spirituali, dovuti alla sensazione di aver perso completamente la capacità di esprimere con la lingua qualunque concetto:
“Le astratte parole di cui la lingua naturalmente usa servirsi per portare una qualsiasi idea alla luce del giorno, mi si sfarinavano in bocca come funghi marci”, scrive Lord Chandos.
La problematica così intimamente ed esattamente esposta in questa lettera è una ferita che si è dolorosamente aggravata nel corso del tempo. In una contemporaneità che ha fatto della velocità e della quantità i suoi valori positivi, il tempo e la cura che l’esposizione di un evento e di una sensazione richiedono sono anacronistici. Non si ha la vista fine nemmeno sulla propria vita. Non abbiamo la messa a fuoco necessaria, viviamo da svegli come in una dimensione onirica, violentemente legata alla nostra psiche e alle nostre distorsioni.
L’unico strumento che resta per poter parlare di questa inefficacia filosofica, di questa impotenza di pensiero e di parola non è altro che la rinuncia, consapevole e sapientemente perseguita, alla lingua codificata. Essa è infatti frutto di un esercizio di pensiero che si è rivelato fallace ed illusorio. La lettera di Hoffmansthal si chiude proprio con la rinuncia del giovane Lord Chandos a qualunque attività letteraria. Mario Fresa, con questo suo interessante esperimento letterario, propone una modalità di espressione inaudita, che mette in scacco questa pesante, seppur logica conseguenza della sfiducia. L’autore sfida l’afasia “sprigionando” la lingua dalle sue catene logiche, almeno apparentemente. Le poesie di Mario sono all’inizio respingenti e provocatorie, mettono alla prova l’apertura del lettore ad esporsi coraggiosamente a percorsi che gli sono estranei, inizialmente, ma che poi si rivelano stranamente familiari, quasi come una reminiscenza sommersa. Inoltre, a ben riflettere, la possibilità di esprimere in maniera così veridica e frastornata la nostra condizione dell’Esserci non può provenire da una posizione filosofica di “superiorità” della mente rispetto al territorio che esplora. Riusciamo a guardare ben poco dall’alto. Noi siamo dentro, siamo invischiati, siamo tormentati dall’avere un bisogno di spingerci oltre il nostro limite senza poterlo realmente oltrepassare. Questo il poeta non lo dimentica mai.
Fresa riesce, come una bestia divina, a collocarsi nel traballante eppure precisissimo punto di congiunzione tra la testa e la pancia, riesce a stare in equilibrio sul limes tra l’intuizione fulminante e la caduta nel non senso. In queste pagine si esperisce un paradosso: solo lo stordimento riesce a rivelare, in maniera discontinua e balbettante, qualcosa di esatto della realtà sfuggente e metamorfica. Il senso della realtà brilla anche – e soprattutto – in tutti gli aspetti insondabili e caotici attorno ad essa.