Da Atelier 75 (Settembre 2014) – Dossier: Nuovi Anfibi – a cura di Tommaso Di Dio e Carmen Gallo
La scelta di avviare una sorta di riflessione a più voci sul rapporto tra poesia e prosa nella scrittura contemporanea nasce dalla constatazione che, negli ultimi quindici anni, sempre più spesso ci si è trovati di fronte a libri in prosa o a consistenti porzioni scritte in prosa in libri che si dichiarano afferenti al genere della poesia. Questo sconfinamento di generi, attivo in entrambe le direzioni, non ha in sé nulla di strano. Spesso accade – ed è accaduto – che scrittori in prosa, romanzieri, narratori, tentino un’avventura o più d’una nelle perigliose plaghe della scrittura in versi, e, d’altra parte, l’uso della prosa da parte dei poeti vanta una lunga storia e una nobile tradizione, vegliata dai numi tutelari di Dante e Baudelaire.
Eppure la prosa di un poeta è solitamente considerata un prezioso episodio a margine della maggiore e più impegnata produzione in versi. […] Quello che sta accadendo, invece, negli ultimi anni, è che sempre più giovani autori, alle soglie liminari della loro vicenda di poeti – o addirittura all’esordio – si dedichino alla scrittura in prosa .Ma quale prosa? Non si tratta di semplici sconfinamenti narrativi, né di affievolimenti della ertigine lirica, o ancora di un mero appianamento stilistico. La prosa che da questi poeti viene messa in opera è di un tipo peculiare che non vuole essere semplicemente narrazione, ma intrattiene un rapporto con la narrazione; non vuole essere semplicemente poesia, eppure intrattiene con essa un rapporto genealogico dichiarato. […] Il fenomeno ci pare meriti interesse non solo come piccolo episodio del più vasto fenomeno dell’influenza letteraria; e ci preme comprendere bene la natura di questa esperienza poiché, sotto l’apparenza di un innocuo anfibio, l’utilizzo della prosa in un libro di versi ha ancora qualcosa di scandalosamente ermafrodito; soprattutto se gli autori dichiarano – o implicitamente fanno presagire – che l’ambiguità della loro scelta non è legata, come in passato, a una maggiore narratività della prosa. Cosa cercano allora questi autori? Implicita nell’opzione della prosa può esserci una potenziale accusa al verso, una velata nausea, un atteggiamento più latamente critico nel confronti della scrittura in versi e di chi la pratichi; ma anche uno sprone a non sonnecchiare in forme e modalità di scrittura già assodate, a non vivere la scrittura in versi come inerzia della tradizione. […]
Tommaso Di Dio e Carmen Gallo
estratti dalle interviste:
– Tradizionalmente, si è sempre fatto differenza tra la rappresentazione lirica della soggettività e la rappresentazione prosastica del mondo delle cose. In questa visione, la scelta della prosa va nella direzione di una maggiore rappresentazione del mondo delle cose. Qual è la relazione tra questa dicotomia e le tendenze riscontrabili nella poesia contemporanea?
SB. In Italia le soluzioni di compromesso tra la poesia lirica e la prosa del mondo sono state ampiamente esplorate – e poi, forse, dimenticate – già negli anni Sessanta, e il compromesso era quasi sempre in versi. Oggi, invece, chi sceglie di scrivere in prosa cerca soprattutto di esautorare il primo dei due poli, con risultati più o meno efficaci. È un tentativo legittimo e spesso interessante, che però mi trova coinvolto fino a un certo punto. Ma devo confessare di sentirmi altrettanto o forse ancor più distante da quelli – e sono molti – che continuano a scrivere in versi come Sereni, o come De Angelis, o comunque con quella leggerezza deresponsabilizzata tipica di chi non ha capito niente. Oggi più che ieri, la poesia resta un problema da risolvere, linguistico o etico che sia.
>Ramonda
– Il pubblico della poesia e il pubblico del romanzo, soprattutto in Italia, restano due mondi poco osmotici. C’è, nella scelta (tua o di altri) di scrivere poesie in prosa, o prose poetiche, l’intenzione di superare l’idea della poesia come un genere per pochi eletti, e quindi il tentativo di rivolgersi a un pubblico più ampio, e meno – lettori compresi – specializzato?
JR. Molti giovani della nostra generazione ascoltano musica di estrazione fondamentalmente alternative, non di così facile ascolto, ma quando leggono si buttano quasi sempre sul romanzo. Lo trovo paradossale e credo che, in fin dei conti, sia più un problema legato alla grande editoria che ai reali gusti del pubblico, di un pubblico che comunque non è tutto uguale. Per esempio, ho consigliato le prose di Inglese e Bortolotti a persone che da anni leggono esclusivamente narrativa e le hanno apprezzate davvero, pur senza sapere nulla della prosa in prosa. Lo stesso è accaduto con le poesie di Genti e Carnaroli. Sono convinto che un certo tipo di prosa breve e di poesia – se promosso – potrebbe avere una diffusione vasta, potrebbe avere lo stesso pubblico della musica alternative.
>Mazziotta
– Il pubblico della poesia e il pubblico del romanzo, soprattutto in Italia, restano due mondi poco osmotici. C’è, nella scelta (tua o di altri) di scrivere poesie in prosa , o prose poetiche, l’intenzione di superare l’idea della poesia come un genere per pochi eletti, e quindi il tentativo di rivolgersi a un pubblico più ampio, e meno – lettori compresi – specializzato?
LM. Rispetto a questo quesito la mia risposta è secca. No, non credo che l’intenzione sia questa. Innanzitutto
perché tutti gli autori che ho citato, per la gran parte, hanno come modelli non dei romanzieri, ma degli altri poeti che si cimentano nella prosa. In secondo luogo perché i poeti che scrivono in prosa cercano altre strade rispetto tanto alla lirica quanto al romanzo. Se pensiamo agli autori di Prosa in prosa o allo stesso, mio coetaneo, Jacopo Ramonda, con il suo bellissimo Una lunghissima rincorsa, si nota subito una presa di posizione contro la tautologia prosa-narrazione. Nel suo caso, ad esempio, i modelli sono costituiti da altri autori di prose brevi.
Credo che il romanzo, non tutto chiaramente, ma una parte della tradizione romanzesca, specie quella che “attrae il ubblico”, lo faccia proprio alla luce della sua linearità.?Se badiamo bene, anche nel caso del romanzo, osserviamo una strana proporzione: più esso si discosta dalla linearità, minore è il pubblico. È ciò che succede in ogni forma d’arte della “parola”, nel romanzo, nella poesia come nel teatro o nel cinema.
C’è pure dell’altro però. Non penso che gli autori (di letteratura in prosa, poesia, o romanzesca) si prefiggano l’idea di scrivere “per pochi eletti”. Purtroppo succede così, come è successo da secoli, da quando, più o meno, la letteratura non è più stata la rappresentazione delle gesta di una collettività, come nel caso dell’epos, in cui il pubblico non solo era fruitore ma “ispiratore”.
Le prose brevi, per di più, a primo impatto, sembrano lontane dalla poesia e lontane dal romanzo. La loro non-narratività le allontana dal romanzo. E la loro mancanza di enjambements le allontana dalla poesia. Credo che, alla luce di questa posizione di frontiera, il loro pubblico sarà sempre “il pubblico della poesia”, più smaliziato e pretenzioso, come recitava l’illustre poesia di Nanni Balestrini, ma anche più abituato alla complessità (e mi piace parlare di “abitudine” più che di “cultura” o “inclinazione”).
Per il resto è forse sempre meglio non curarsi troppo del pubblico, in qualsiasi forma d’arte. Probabilmente questo è elitario ma non credo sia il pubblico a dover “chiedere” all’autore, e neppure il contrario. Autore e lettore collaborano non tanto alla comprensione del testo – la letteratura contemporanea ed in particolare la cognitive poetics ci hanno insegnato che non sempre un testo è decodificabile – quanto alla costruzione, ed alla decostruzione, della complessità del moderno, passando attraverso le intelaiature del testo scritto e fruito.
> Broggi
3) Quali sono stati, se ce ne sono stati, i modelli o le personalità che hanno maggiormente influenzato la tua scelta di scrivere in prosa?
AB. In ambito strettamente letterario un primissimo avvicinamento a un tipo di scrittura in qualche modo “sgombra”, laconica e denotativa – in questi termini anche preliminare alla lettura di certo letteralismo francese à la Hocquard o al docu ormai impietosamente compiuto di un Reznikoff – lo devo senz’altro alla riflessione sui libri di Giampiero Neri, da Liceo fino a Paesaggi inospiti. Gli autori del Gruppo ’63 sono stati invece per me un recupero molto successivo e tutto sommato, anche una volta “acquisito”, non primario (con la sola eccezione forse di certo Balestrini).
Questo per provare a rispondere alla vostra domanda. Devo tuttavia precisare che a un certo punto del mio percorso ho privilegiato un’attenzione ai fatti della scrittura, e del mondo, piuttosto di tipo analitico-linguistico che letterario in senso stretto. Ero sempre più interessato a una scrittura in prosa e in versi del concetto e della consapevolezza, piuttosto che alla liricità e all’espressione: una scrittura cioè senza accensioni metaforiche e finanche in posizione dialettica rispetto alla visione classica (di Jakobson, Sklovsky ecc.) della letteratura come qualcosa di formalmente diverso e linguisticamente contrastivo rispetto alle lingue d’uso. Se in termini generali di poetica la riflessione su alcuni artisti e momenti della storia dell’arte contemporanea (e dell’area contemporanea in senso stretto) sono stati per me cruciali, per lo specifico della scrittura in prosa sono stati importanti lo studio di alcuni romanzieri del secolo scorso – su cui non posso ora dilungarmi – e della scrittura giornalistica, nonché le letture teatrali, il confronto con la lingua del cinema e del teatro di parola di area tedesca e anglo-americana (da Fassbinder, Pinter e Albee ad oggi). Queste ultime in particolare, in quanto mi offrivano un modello: 1) di presentazione diretta e non mediata dei fatti narrati e testuali, e quindi di maggior forza illocutiva; 2) di discorso paratattico quotidiano contemporaneo e quindi di lingua d’uso; e 3), nel caso della narrazione attraverso le didascalie – alcune prose d’Avventure minime sono costruite proprio interpolando le didascalie di opere teatrali –, di scrittura al presente come tempo dell’urgenza e del solo primo piano, di quel tipico “eccesso di urgenza” e di primo piano dato dall’illusione della restituzione degli eventi in tempo reale. Urgenza, vividezza, velocità, immediatezza – e per converso superficialità, piattezza, mancanza di profondità, anche e soprattutto temporale e storica – essendo ancora una volta alcuni dei caratteri del modo in cui ci troviamo a comunicare e della “cultura” secondo i media dominanti, Internet, la televisione, i videogames, and so on.
L’articolo è qui proposto in versione accorciata e adattata per le pagine di Atelier online. La versione integrale è leggibile in rivista assieme alle interviste)
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