Napolesía, crasi tra Napoli e poesia (città nuova e poiesis), non intende ridurre in un ambito territoriale le scritture dei trenta poeti qui selezionati e dei trenta che saranno presenti nel prossimo volume. Tuttaltro. Proponendoci di realizzare questa raccolta, abbiamo immaginato uno spazio libero nel quale chiedere ad autrici e autori legati a Napoli per nascita e/o formazione di presentare la propria ricerca; mettere insieme le voci di coloro che in questa città si sono nutrite/i di particolari stratificazioni culturali e/o hanno dovuto liberarsi dalle spire di soverchianti stereotipi. Sarebbe una banalità dire che la poesia non ha confini per sua stessa natura; sarebbe omissivo non ricordare che nel Novecento alcune linee letterarie sono state battezzate anche a partire da dimensioni territoriali; sarebbe assurdo non “sconfinarsi” nell’era della transmedialità; sarebbe miope non cogliere gli elementi distintivi della parola in relazione al contesto in cui questa prende forma. L’idea di riunire una comunità minima di voci poetiche, seppur in rapida e continua transizione, ci ha interessati: forse perché partire dall’archetipo condiviso delle origini può aiutarci a non sprofondare ulteriormente in un certo atomismo oggidiano, nell’indistinto della lingua globale. E che volto ha la poesia contemporanea di queste lande? Essa appare vive e vitale, seppur dentro un quadro di rimozione della poesia dal sistema culturale, almeno in quanto merce editoriale. All’impresa non siamo stati mossi da una volontà panoramica sullo stato dell’arte poetica negli ultimi decenni a Napoli e dintorni ma dalla curiosità di cogliere le traiettorie verso cui viaggiano le nuove scritture di tanti poeti “napoletani” (aggettivazione che per noi significa identità aperta in movimento, fuga permanente dal vieto stereotipo). In questo senso abbiamo chiesto alle autrici e agli autori presenti nel volume lo sforzo di proporre inediti, di regalarci squarci del loro lavoro ultimo, lo stato presentissimo e futuribile del loro percorso.
Costanzo Ioni e Ferdinando Tricarico
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Nel lungo, estenuato cammino d’Occidente, ci sono state epoche “classiche” ed epoche “ellenistiche”. Nelle prime domina il poiein, la forza fiduciosa della creazione, della tradizione che si fa da sé, che fonda se stessa. La seconda è un tempo di catalogazione, di raccolta perenne, continuo riordino di un passato con cui fare i conti è tanto tormentoso quanto necessario. Il nostro è un tempo decisamente ellenistico. Assediato, e a volte angosciato, da una tradizione autoritaria, invadente, intollerabilmente ubiqua, da cui sembra poter salvarci solo la negazione e la fuga – o la sottomissione e la resa, al limite lo sberleffo.
Ora, una volta svanite le baldanzose avanguardie, la domanda resta la stessa, e investe il senso – o la possibilità – di “far poesia”, nel tempo in cui ogni fiducia nella capacità, e nella verità, della parola sembra essere stata castrata dal folletto decostruttivo, dal linguistic turn, dalle avanguardie, da Wittegenstein e Foucault eccetera. Ma, soprattutto, da un opprimente, oggettivo “già detto”. Che fare allora con la parola, anzi con le parole? Derrida, il grande esecutore testamentario della cultura occidentale, proponeva due soluzioni: la soluzione-Husserl, “ridurre o impoverire metodicamente la lingua empirica fino alla trasparenza attuale dei suoi elementi univoci e traducibili”; versus la soluzione-Joyce: “ripetere e riprendersi a carico la totalità dell’equivoco stesso”. Distruggere la Tradizione o annullarvisi dentro.
In questo spazio strettissimo e impervio – e in verità, né con Joyce né con Husserl – si colloca il progetto di Ioni e Tricarico, che ha cercato di fotografare e in qualche modo razionalizzare questa crisi nella sua fase più acuta andando a scandagliare nell’estrema, schiacciante varietà dei percorsi e delle proposte tematiche, sia sul piano dell’idea stessa di poesia, sia su quello, cruciale, delle soluzioni e delle scelte formali. L’elefante nella stanza si chiama rapporto con la tradizione, mai così urgente, mai così vitale, un assillo, un tormento che, con maggiore o minore coscienza o intenzionalità, percorre tutti i testi.
Guido Cappelli
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In immagine di copertina, “Scrittura e/o Paesaggio”, di Stelio Maria Martini.