In un contesto storico-politico e sociale nel quale non sono più possibili orizzonti di progettualità e l’atto del desiderio è confuso con quello dei consumi, l’individuo risulta sempre più alienato e ferito nel proprio Sé. Il dominio esercitato dalle esigenze del mercato e il senso di provvisorietà cui l’esistenza si riduce sembrano quindi alla base di una poesia che si interroghi sulla sete come espressione inviolabile del desiderio, implicita nella natura stessa dell’essere umano. Questo è il percorso speculativo su cui procede il lavoro poetico di Luca Pizzolitto, tornato in libreria con una nuova raccolta, Getsemani, edita da peQuod nella storica collana Rive e fregiata dalla prefazione di Roberto Deidier. Se il verticale è decaduto, bisognerà ripensarlo nei termini in cui “l’anelito a una rigenerazione” possa presupporre una correlazione tra l’effimero e l’assoluto.
Osserva a tal proposito Deidier:
“Quello che accade nel giardino evangelico non è il momento che precede, non è la sospensione, né l’attimo salvifico; nella vicenda che ci è giunta non c’è spazio per il kairòs, per la quiete prima della tempesta, prima che tutto precipiti. Quella sosta, che intima alla preghiera e alla riflessione, segna in modo evidente e decisivo l’avvio di un processo irreversibile, di una catastrofe già scritta nelle parole dei profeti, di un dramma altissimo che segna l’avvicendarsi delle storie umane e le accatasta in un prima e in un dopo, fino a quel momento impensabili. Non c’è grazia alcuna in quanto sta per accadere, ma solo uno scempio gratuito, sproporzionato. Nell’orto del Getsemani accade qualcosa di inaudito, ma in realtà accade per la seconda volta. Il deus absconditus si manifesta nella consapevolezza della prova imminente, ed è l’istante in cui la preghiera si fa supplica impossibile, tentativo di sottrarsi; è, in sostanza, il momento in cui quel dio ineffabile viene negato e la scena è interamente occupata dalla sua incarnazione, dal suo simulacro, che sembrerebbe ambire a una propria, improvvisa autonomia.”
Il Getsemani dischiude, nella poesia di Pizzolitto, quello spazio intermedio tra essere e non essere in cui si prepara la catastrofe, il dramma. Quel tempo, ancora racchiuso nell’imminenza, può essere attraversato, è una lontananza che percorriamo e della cui fatica è pregno l’atto stesso della parola. Entrando nel flusso di ciò che muta e diviene, il poeta indica a sé e al lettore la via del canto come luogo dove il possibile si fa ovunque reale, per citare Hölderlin. E certamente, l’imminenza e il suo successivo compimento disegnano i limiti di una geografia in cui è lo sguardo sul dolore – proprio e altrui- a modulare il cammino. Non casualmente, la prima sezione, Geografia della sete, è aperta in epigrafe dai versi di Lucarini:
La scelta sta fra tempo
ed eterno, ma è proprio il tempo
che ci fa scegliere l’eterno.
La scelta di questi versi a introduzione della raccolta ribadisce quella di una “lingua che conosce tutti gli interni del desiderio, la vertigine e la caduta, il vuoto e l’attesa, lo spengimento e la rinascita”[1]. Entro queste coordinate prosegue la ricerca poetica di Pizzolitto, fissando nell’immagine della sete l’emblema del suo bisogno di senso:
Cadono addosso i giorni,
aria pesa scalza consuma
la carne – nel tempo altro,
refusi d’ombra sulle tue mani,
vicino al pozzo rimane, fredda,
rimane la sete.
Le lunghe veglie d’inverno,
la ferita accesa delle tue labbra.
Il dolore assume una durata atemporale, la corporeità sfuma in varchi di silenzio e ascolto. La “geografia della sete” mappa anzitutto il sentimento del nulla e della provvisorietà, coessenziale poi all’arsura della sete. L’acqua, figura dell’origine, riverbera in sé i flussi del tempo che trascorrono sulla carne consumandola:
Il parto avaro della notte
mastica e sputa la displasia
del giorno, separi il respiro
in due acque.
I cieli divisi della tua fame.
Nell’abisso, nel vuoto
non esiste parola.
E tuttavia, nota Deidier:
“Nella loro densa concentrazione, i componimenti di Getsemani sono grumi di pensieri e di immagini che afferrano il lettore nella loro temibile consequenzialità. Sembra che un ferreo determinismo sovrintenda quest’ampia dinamica di oblio dello sguardo (la cosa che si sottrae per sempre) e di memoria della parola, al punto da lasciar cadere persino tutta la rete simbolica dell’acqua come elemento lustrale. Tutte le sue declinazioni, che si tratti di «neve» o di «pioggia», non soddisfano né l’anelito a una rigenerazione, né, tanto meno, il desiderio della durata; al contrario indicano una fine, il nulla dove non resta alcun segno.”
Quella cantata da Pizzolitto, per brevi sequenze fugaci, è una storia di peregrinazioni, che declina l’esperienza nelle forme dell’acqua e della sete. La perennità della mancanza muove dalla sua indicibilità e dall’inesistenza di un luogo dove le cose non finiscano per perdersi negli abissi della polvere:
Il parto avaro della notte
mastica e sputa la displasia
del giorno, separi il respiro
in due acque.
I cieli divisi della tua fame.
Nell’abisso, nel vuoto
non esiste parola.
Di questa percezione il poeta ritrae l’impermanenza:
Le mani strette sotto
il cuscino, il niente
che segue l’amore.
Cadi, dio inatteso, cadi
in puro sguardo visione
ciò che amato muore,
non resta.
I due poli antinomici di luce e ombra convergono per dilatare lo sguardo e sfumarne i contorni:
Conosco i tuoi passi che si
consumano nelle mie vene.
Una lampada accesa,
le stanze dimenticate
della gioia l’antico fiore
del canto
terra recita inganni
parvenza del sogno
immacolata ferita
di polvere e cielo.
Dimmi,
è forse di Dio
l’eterna sete?
Nelle stanze senza fuoco è la seconda sezione dell’opera. Lo spazio della casa, luogo di conforto e protezione, è anch’esso abitato dal dolore e il suo perimetro è insussistente, poiché prodotto di un’esistenza provvisoria, “involontaria” per l’appunto:
Spina di cardo
bianco costato
folle perdono
del sangue
– mio padre
è cieco,
traccia la via
solo col canto.
Il padre, figura sapienziale, è anch’essa metafora del desiderio: cieco, prosegue nel cammino identificando nel canto la via da seguire. Ma qual è la meta? Ogni cosa giace in uno stato di abbandono e di attesa:
Questo tempo che
ci respira addosso
è affanno, abbandono
una poverissima luce.
Le parole, cui pure il poeta si affida, sono insufficienti a offrire riparo e calore:
Tradito e perso l’istante
esatto del fuoco
ombra rubata al sole
la follia del sonno
disfare le stanze in cui
abbiamo vissuto
– ho cercato casa, riparo nel vento.
Del tema della casa, già frequentato da Pizzolitto, così scrivevo in un intervento a proposito della sua produzione all’interno del secondo volume “Nord – I poeti. Paola Loreto: la poiesis dell’attenzione” (Macabor, 2023, a cura di Marta Celio e Bonifacio Vincenzi):
“La casa non è solo luogo di intimità domestica, ma anche brace al cospetto del mistero delle cose. Le finestre sono un canale privilegiato di osservazione dell’esterno, il limes attraverso cui possono concretarsi l’esperienza del dono e al contempo il riconoscimento di un’alterità posta «in una quieta distanza da tutte le cose». Proprio per la sua significazione ontologica, la casa è un luogo archetipico, nel quale ciò che si è lasciato o perduto torna a riproporsi nella forma del dolore. Non casualmente, a epigrafe della seziona Alla muta fonte, è una citazione di Lacan, «ognuno incontra nell’altro la traccia del proprio esilio». L’esilio è la dimensione dell’inattingibile e dell’indefinito: è una condizione dell’anima, dalla quale si diffonde la voce dell’uomo interiore[2].”
E infatti:
Luglio qui si attende
nelle crepe.
Scrivere è il mio
secondo esilio.
La terza sezione, “Noi resi a noi stessi”, veicola l’ipotesi di una rigenerazione a partire dalla possibilità della resa a noi stessi. Per Pizzolitto questo non implica l’idea della noluntas, quanto quella del ricongiungimento con l’assoluta levità delle cose. A introduzione di questo ulteriore snodo nel libro fanno eco i versi di Guidacci:
Il mio legno
risponde al mare, la mia vela al vento.
È l’ardore della contemplazione, il pieno riconoscimento della sacralità dell’effimero mosso da forza vitale, creatrice:
Cerca ora solo bellezza
quiete, la soglia stretta
della contemplazione
Spegni la luce
Tessi la tela, l’ordito
freddo del fiore che
nasce da queste tue spine.
Per il poeta le cose possono dischiudere promesse inattese, malgrado poi la minaccia della cenere:
Labbra chiuse sulle lenzuola
foglia ferita nel vento,
la morte per acqua –
sterile autunno sul viso.
Ama il silenzio che precede
la cura – ama l’umano stupore
che accompagna questa bianca,
non voluta promessa.
E tuttavia, la tensione spirituale che anima il poeta lo induce a desiderare quella che Rudolf Otto definirebbe la consapevolezza del “Totalmente Altro”:
Il piatto vuoto, sul tavolo, in cucina.
Il solco degli occhi, di ogni tua attesa.
Sapere il tempo, distruggere il fuoco.
Il bisogno di fermare l’incessante divenire delle cose implica quello di fondersi con la natura sapienziale del tempo per scandirne l’amore e l’attesa:
Il giorno breve di luce consum
dicembre nel sonno trafitto,
l’elleboro fiorito.
La tavola pronta,
la cena mai consumata.
L’amore è un cancro che mangia
la carne, smagrisce ogni attesa.
La sete ostinata, che porta attesa e arsura, resta comunque predittiva della mancanza:
Dal mio abisso il cuore s’incendia
medito ed è una stele di fuoco
predizione, visione, mancanza
Accosti la finestra, accendi la luce;
breve sussulto che ancora non sai.
Non ci siamo salvati, guarda bene:
non ci siamo salvati.
Come i gigli dei campi è la quarta sezione del libro. Essa si apre con alcuni versi emblematici tratti da Gelman:
(…) quando si posa
il passero sull’albero, chi è volo, chi terra?
La ricerca del poeta non può esaurirsi, poiché è il mondo su cui il suo sguardo si dipana a tradire qualcosa di antico e indecifrato:
Manto di spine
lacera il verbo
volto d’antica
umana bellezza
– Dio –
Ha sempre
sete chi rimane.
La sete è fonte stessa della parola. Pizzolitto attinge a un’acqua che non disseta e sosta lungo le rive della sospensione e del silenzio a scrutare la distanza che lo disgiunge da tutte le cose:
Un cielo caduto
l’ultima pietra sul viso
vieni dal vento, dal grido
schiacciato in gola
questa distanza da me,
da tutte le cose.
L’universo poetico di Pizzolitto è come esposto a un vento che lo consuma, giorno dopo giorno, al confine con un mai più, segno della sua irrevocabilità. È la lezione di Cristo, infine, l’atto d’amore più grande, cui l’io affida il proprio auspicio, “giungere vivo alla vita”:
Cristo spezzato dalla sete,
Cristo benedetto – nato
nell’abbandono
nero il cielo, nera sacca
d’affanno: il mio mare è fame,
è giungere vivo alla vita.
“Giungere vivi alla vita” significa farsi lambire dall’esperienza del sacro e non annullarsi nel desiderio che logora pertinace la vita. Farsi puro desiderio del desiderare, in un tutt’uno con l’ineffabile e l’indicibile:
Mi arrendo all’ineffabile
ancestrale silenzio
in luminoso vuoto.
Io oggi solo in Te
trovo pace, riposo.
L’opera si chiude infine con la sezione “Parole per Ugo”. Ugo, figura liminare, dedicatario luminoso sottratto alla vita, il cui cuore, mai spento, è ora “cieli e lontananze”:
E a chi resta, resta la sete e il pianto,
il giogo eterno della memoria,
l’umano niente nel farsi polvere
fuoco, sostanza stessa di dio.
È scesa la notte sui monti, tra le malghe
che amavi tanto. Ora attendiamo soli
il giorno, nel nascere al nuovo canto.
Il tuo cuore è cieli quieti e lontananza.
* * *
* * *
Luca Pizzolitto nasce a Torino il 12 febbraio 1980, città dove attualmente vive e lavora come educatore professionale. Da più di vent’anni si interessa ed occupa di poesia. Tra i suoi libri, figurano: Dove non sono mai stato (Campanotto), Il tempo ferile della solitudine (Campanotto), Tornando a casa (Puntoacapo). Con la casa editrice peQuod ha pubblicato, nella collana Rive: La ragione della polvere (2020), Crocevia dei cammini (2022), Getsemani (2023, prefazione di Roberto Deidier). Nel 2023, è stato inserito all’interno dell’antologia Nord i poeti, vol. II, edita da Macabor. Da fine 2021 dirige la collana di poesia Portosepolto, sempre per conto della casa editrice peQuod. È ideatore e redattore del blog poetico “Bottega Portosepolto”. Cura la rubrica Discreto sguardo per la rivista on line“Poesia del nostro tempo” e Polaroid – istantanee di poesia per“FaraPoesia”; collabora con il blog “La poesia e lo spirito”.
Pietro Romano (Palermo, 1994) si è laureato in Italianistica presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna con una tesi su Nino De Vita. Ha pubblicato alcune raccolte poetiche, tra le quali Fra mani rifiutate (I Quaderni del Bardo 2018) e Case sepolte (I Quaderni del Bardo 2020, pref. di Gian Ruggero Manzoni, postfazione di Franca Alaimo), quest’ultimo classificatosi tra i libri finalisti del Premio Mauro Prestigiacomo. I suoi versi sono stati tradotti in russo («Мой дом — до молчанья», “La mia casa è prima del silenzio”, Free Poetry 2019, con pref. e traduz. di Olga Logoch, collana di poesia italiana a cura di Paolo Galvagni, traduzione di Fra mani rifiutate), greco, catalano e spagnolo, e inseriti nell’antologia Le parole a quest’ora (Free Poetry 2019, a cura di Paolo Galvagni).
[1] A. Prete, Il cielo nascosto- Grammatica dell’interiorità, Bollati Boringhieri, pag. 140.
[2] Il cammino poetico di Luca Pizzolitto, in Nord- I poeti. Paola Loreto: la poiesis dell’attenzione”, Macabor, 2023, a cura di Marta Celio e Bonifacio Vincenzi, pag. 169