Stefano Lorefice, “Passeggeri solitari” (La Gru, 2023)

Nota a cura di Lorenzo Mari

Un passaggio verso il fuoco: “Passeggeri solitari” di Stefano Lorefice

 

«Perché noi portiamo il fuoco». L’occhio cade subito sulla citazione dalla Strada di Cormac McCarthy, e non tanto perché l’autore statunitense, assurto a simbolo della narrativa post-apocalittica contemporanea, sia da poco scomparso; se l’occhio cade subito, è a causa dello scarso commercio che la poesia italiana intrattiene con la narrativa sua contemporanea – specie se quest’ultima è impegnata nella scrittura del Grande Romanzo (Americano o meno che sia) – e, dunque, per l’eccezionalità delle circostanze.

Circostanze illuminate, in questo caso, dalle coincidenze: Cormac McCarthy è morto il 13 giugno di quest’anno, mentre io ero impegnato nella lettura e rilettura di Passeggeri solitari (La Gru, 2023) di Stefano Lorefice, luogo di rinvenimento della citazione appena riportata. Risulta, dunque, abbastanza consequenziale iniziare a parlare di quest’ultimo libro vedendovi trasposto quel “fuoco” collocato alla fine del mondo da McCarthy, ma che Lorefice intende in un senso forse più etico – rispetto alla necessità di una trasmissione culturale intergenerazionale – e al tempo stesso più vicino alle motivazioni profonde della scrittura, un “sacro fuoco” che torna a scorrere in poesia a dodici anni dall’ultima pubblicazione di Lorefice, Frontenotte (Transeuropa, 2011).

Tornando per un attimo a quel titolo, è su un “fronte”, dunque mai abbandonato, che si colloca la scrittura di Lorefice anche in apertura di Passeggeri solitari – passando già oltre la copertina (impreziosita da una foto dell’autore, Living with the wolves, che anticipa e condensa alcuni temi del libro, com’era già successo con l’immagine di copertina, sempre di Lorefice, di corpo striato di Riccardo Frolloni) e apprezzando da subito la qualità della confezione editoriale del marchio La Gru – con una prima sezione che si intitola, appunto, e inequivocabilmente: “Linea del fronte”. È un confine sorvegliato per esigenza professionale (il primo testo reca la didascalia: «…l’ultima pattuglia della notte», p. 9), ma osservato anche con un altro occhio, che fa esercizio di una pietas umana, ancor prima che umanistica; si arriva, infine, a un vero e proprio atto di auto-accusa rispetto alla capacità della poesia di rendere conto delle ambiguità di questo doppio sguardo: dove «ignorare il disastro non servirà a un bel nulla», anche scrivere non potrà che ripetere il meccanismo per cui ne esce «indenne ogni coscienza, su questo lato del fronte» (p. 10).

Ha ragione, dunque, Pasquale Vitagliano quando afferma, nelle 20 righe dedicate al libro, che «con la poesia non si può bleffare» e che «Lorefice è un poeta sincero»; non si tratta, peraltro, di una sincerità volta in chiave intimista o tradizionalmente lirica, ma di quella pietas che trova radicamento nell’essere tutti, voce poetica compresa, implicati nella condizione esistenziale delineata nel titolo, quella di passeggeri solitari. «Si annega in una moltitudine di presenze» (p. 12), dunque, e anche i transiti sono molteplici, come continuano a indicare – in senso geografico, ma anche, forse soprattutto, fotografico – le didascalie apposte in calce ai blocchi di testo prosastici che costituiscono la maggior parte dei testi presenti nel volume.

Appunti di viaggio? Sì, ma anche intermezzi fulminanti o chiuse gnomiche, come questa riflessione, apparentemente sconosciuta a molta altra poesia contemporanea sedicente “impegnata”: «la notte in cui bombardavano Kiev io viaggiavo verso Torino e per fortuna almeno di noi si erano dimenticati» (p. 15).

«La linea del fronte, intesa in senso proprio, è dunque per fortuna lontana», scrive a questo proposito Giovanni Nuscis: sì, e no, perché nelle righe di Lorefice continua comunque ad affiorare, con insistenza, il «disastro». È vero, però, quanto rileva Nuscis, e cioè che è proprio la consapevolezza della propria condizione e contraddizione a indurre Lorefice a intensificare il proprio sguardo verso i propri “compagni di viaggio”, come accade nella seconda sezione, intitolata non per caso “Figure urbane assortite”.

Non sono pochi i poveri cristi e i poveri diavoli – «certi eroi disperati» (p. 28), ma anche un «por diaul» (p. 27), nel dialetto di Lorefice, che è originario di una zona tra «la fine del lago di Como», come recita la biografia in quarta di copertina, e l’imbocco della Valtellina – incontrati in questo percorso, che si snoda tra descrizioni prosastiche e iper-puntuali («Camicetta anni ’80 di motivi floreali stile Magnum P.I. con sguardo alla Bryan Ferry ed un finale di scarpe luccicanti, ora stanche e disordinate», p. 24) e sprazzi più lirici e talvolta visionari («Vipere addosso, giura ancora che in quei momenti le sentiva», p. 25).

Sono questi ultimi a prendere il sopravvento, a livello quantitativo, nella sezione successiva, “Utili conversazioni notturne”, ma il lirismo non soverchia mai l’intenzione e soprattutto l’attitudine alla conversazione, che non è solo tematizzata nel titolo della sezione, ma sembra essere una caratteristica fondante per la poesia di Lorefice: «dovremmo spiegarci bene io e te, / sederci, stendere la cartina geografica / sul tavolo e indicare, contarli / tutti i paesi che siamo, / anche i piccoli villaggi…» (p. 41).

In una particolare geografia, accennata attraverso fugaci indizi nelle sezioni precedenti, si radica la successiva sezione “Istruzioni naturali per paesaggio, valli sospese e faccende alpine”, spaziando dalle Alpi Orobie all’Alta Engadina, nei Grigioni svizzeri. Se nei versi «in una nuvola / di vapore che resiste al gelo» (p. 56) pare di intravvedere il “serpente del Maloja” (dal nome del passo montano con il quale termina la valle svizzera italofona della Bregaglia e inizia l’Alta Engadina) immortalato, per il cinema, da Oliver Assayas in Sils Maria (2014), è però la lezione di un certo Pusterla a farsi sentire nella visceralità e insieme nella petrosità di questi paesaggi tanto esteriori e naturali quanto interiori – non senza, però, una traccia di fredda invettiva, qui e là ricorrente (come nell’Argéman di Pusterla, in fondo): «File indiane lungo crinali, che le bestie del luogo osservano con sommesso bisbigliare: si spiega ai cuccioli che a valle ce n’è una marea di quei bipedi farlocchi» (p. 59).

Segue una “Ipotesi sul ritorno” che non è affatto la sconfitta politica di questo embrionale primitivismo dello sguardo, né la conclusione sconsolata di uno jüngeriano “passaggio al bosco” – per quanto ricorra anche la coppia minima “paesaggio”/“passaggio” – bensì la scoperta di poter essere un albero celaniano “con le radici in aria”: nelle parole di Lorefice, «un albero randagio […] che si muove nelle radici»; anzi, «sembra non si muova, eppure il suo elemento base è la fuga» (p. 72). Una fuga, che non è diserzione, ma resistenza, con “Tutto l’amore che resiste” dell’ultima parte, identificabile con la citazione da Cormac McCarthy e un solo testo, che termina, appunto, con queste lapidarie parole (p. 77).

Del resto, è proprio questo amore il “fuoco” che reca con sé la voce poetica – dissimile per attitudine ed esiti da quella di McCarthy, ma a lui prossima per la percezione del “disastro” incipiente, e al tempo stesso già avvenuto, e per l’identificazione con alcuni altri elementi romanzeschi della Strada – e che ci accompagna in questo viaggio da passeggeri solitari, certamente, ma non condannati, per questo, in via definitiva alla solitudine o all’isolamento.

 

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È andato nelle malestrade
ed in quelle bufere
ha perso un poco il passo,
lungo case diroccate,
messaggi mai inviati
e ciò che non conta posato sul piatto.
Un viandante senza corteo;
le periferie lo hanno cambiato
e pure l’ombra misura il silenzio:
una nebbia senza mestiere,
una striatura,
un vicolo,
un passato.

(Le malestrade)

 

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Ci resta questo limite posticcio
che è un confine da me
a te; un fermo immagine
dilatato, una pioggia
che scende da tre giorni
ed un passo alpino
di tredici tornanti
che sale in Engadina.

(…Malojapass)

 

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La spaccatura nel muro del vecchio rudere si apre ogni anno di più, vi passano spifferi e venti primordiali che portano neve. Una baita lungo il crinale, in quota. Si misura il tempo fra funghi secchi, farina di castagne ed il perfetto volo del falco in picchiata verso la preda.

(Sostila, Valle delle Streghe)

 

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Stefano Lorefice (1977) è nato e vive alla fine del lago di Como, ha pubblicato le raccolte poetiche Passeggeri solitari (La Gru, 2023), Frontenotte (Transeuropa, 2011), L’esperienza della pioggia (Campanotto, 2006), Budapest Swing Lovers (Edizioni Clandestine, 2004) e Prossima fermata Nostalgiaplatz (Clinamen, 2002). In narrativa ha pubblicato la raccolta di racconti Cosmo Blues Hotel (Edizioni Clandestine, 2004) e nel 2014 il romanzo Il giorno della Iena (Giraldi). Si occupa anche di fotografia (Instagram: @living_with_wolves).

 

Lorenzo Mari (1984) vive e lavora a Bologna. Ha pubblicato alcuni libri di poesia, tra i quali il più recente è «Soggetti a cancellazione» (Arcipelago Itaca ed., 2022; tr. ing. a cura di P. Vangelisti, «Cancellations«, Magra Books, 2023), e alcuni saggi, come «Il taccuino dell’intellettuale. Disegno e narrazione nell’opera di John Berger» (Mimesis, 2020). Traduce dall’inglese e dallo spagnolo, come nel caso del saggio «Riot sciopero riot. Una nuova epoca di rivolte» (Meltemi, 2023) di Joshua Clover e del libro di poesia «Trilce» di César Vallejo (Argolibri, 2021). È redattore della rivista online «Pulp Magazine».