“Una poesia apolide”
L’ingiustizia del mondo e la delicatezza nei versi di Paul Celan
Non v’è un altro poeta che, al pari di Paul Celan (acronimo di Paul Antschel), abbia vissuto sulla propria pelle il Novecento, con la sua ferocia e la sua alienazione. È infatti impossibile comprendere la poesia dell’autore senza calarsi nei fatti che segnarono aspramente l’essenza del XX secolo.
Di origine ebraiche, nato nella città di Cernauti (attuale Ucraina), Celan è il poeta delle mille lingue; la sua produzione, e lo stesso acronimo con cui sostituisce il proprio nome d’origine, sono infatti derivanti dalla contaminazione linguistica che, per passione e per educazione materna, lo portò ad apprendere perfettamente il tedesco, il romeno, il francese, oltre all’ebraico e all’yiddish. Questa vena mitteleuropea è la manifestazione dello spirito inquieto di Celan. Uno spirito che dovette affrontare la durezza della deportazione nazista, dalla quale riuscirà a fuggire, pur finendo in alcuni campi di lavoro in Romania. A differenza del giovane poeta, il padre e la madre di costui verranno invece arrestati dalle SS e moriranno poco dopo, rispettivamente a causa del tifo e in una delle tante fucilazione di massa nel campo di concentramento di Michajlovka, in Ucraina.
Il dramma della persecuzione segnerà profondamente la psiche dell’autore, eppure, quella dalle deportazioni del regime hitleriano non saranno le uniche fughe di Celan che, anni dopo, sarà costretto ad abbandonare la Romania a causa del regime comunista. La condizione del poeta è dunque quella dell’apolide, di un figlio della barbarie di un secolo che ha prodotto deliri politici e, in tal senso, lo sradicamento è senz’altro il tassello fondamentale per addentrarsi nella comprensione di versi carichi di dolore.
Quella di Celan non può quindi essere una poesia della speranza né una poesia romantica, bensì una lirica che racchiude in sé tutta la devastazione storica di un’epoca, che ha pianificato lo sterminio di milioni di persone, devastando l’Europa e il mondo intero con il secondo conflitto mondiale, esito inevitabile dei nazionalismi e dell’ideologia totalitaria.
E se l’elemento della morte è centrale nei testi di Celan -a causa di quest’angoscia, il poeta vivrà infatti diverse crisi nervose, che lo porteranno a vari ricoveri psichiatrici, sino al suicidio, avvenuto nel 1970 a Parigi- un altro tema ricorrente è il rapporto con la trascendenza che egli ha senz’altro interiorizzato per via delle sue origini ebraiche. Eppure, quel divino che il poeta continua a cercare, non si manifesta mai, continua a sfuggire, lasciandolo con la propria fragilità tra le mani e con il trauma indelebile della deportazione, massimo esempio dell’ingiustizia che grava su questa terra e che nulla riesce a cancellare.
Scrive così Celan nella lirica “Un granello di sabbia”[1]:
“… Tu stendi incontro a lui la radice
che ti apprende a volare, quando la terra arde
di morte:
ti ergi in alto
ed io ti precedo in volo come foglia…”
dando forma, attraverso i versi, a quel sentire angoscioso e privo di causa, che pervade l’esistenza del poeta e che concerne l’impossibilità di collocare la morte entro l’orizzonte della vita. Quasi come se, le atrocità che hanno segnato il vissuto di Celan, sin dall’infanzia, avessero sviluppato in lui una scissone incurabile, per cui ogni bellezza finisce col mostrare il proprio vacuo volto, venendo così inglobata nel nulla. In tal senso, la ricerca concettuale di Celan è propriamente filosofia e, difatti, l’autore amò particolarmente Heidegger -sebbene costui appoggiò il nazismo- e fece propri alcuni concetti tipici della filosofia heideggeriana, come quello di essere-per-la-morte. Tuttavia, la risposta di Celan al dramma della morte non prevede alcuna speranza né riconciliazione: i versi lasciano, intenzionalmente, trasparire un nulla che tutto ingloba e contro cui l’autore lottò nel corso della propria vita. All’interno di tale complesso rapporto con l’esistenza si colloca, altresì, la ricerca della trascendenza, che viene mirabilmente sfiorata nella poesia “Assisi”[2]:
“Notte umbra.
Notte umbra con l’argento di ulivo e di campana.
…Muto ciò che pervenne alla vita, muto…
Urna di terra, che la mano di un’ombra chiuse
per sempre…
Splendore, che non sa confortare.
I morti, Francesco, implorano ancora”.
Nel testo, la disperata ricerca di un nutrimento immateriale e di una consolazione che attenui il dolore dell’angoscia, si scontra, nuovamente, con la morte, che finisce con l’averla vinta e con il prevalere persino sulla testimonianza d’amore di San Francesco d’Assisi, quasi come se -pare sostenere Celan- neppure la compassione bastasse più a curare la condizione umana. E, in tal senso, lo stile del poeta si fa adesso esistenzialista, tutto intento a sondare la natura della vita su questa terra e la sua ineludibile essenza transeunte, per questo drammatica. Segnato da tanti lutti e dalla durezza della storia che, al pari della sua, divorò molte altre vite innocenti, Celan impiega la poesia come linguaggio d’indagine di sé, senza tuttavia riuscire ad approdare a quella certezza inscalfibile su cui, soltanto, può edificarsi la speranza. Emblema dell’uomo contemporaneo per il suo sradicamento e martire del Novecento per la sua storia personale, Celan resta, ancora oggi, uno dei maggiori poeti di tutti i tempi e colui che, assieme a Levi, ha saputo dare testimonianza della brutalità dello sterminio e della sue conseguenze, destinate a segnare per sempre l’umanità e le generazioni a venire.
“Negro latte dell’alba noi lo beviamo la sera
noi lo beviamo al meriggio come al mattino lo beviamo la notte
noi beviamo e beviamo
noi scaviamo una tomba nell’aria chi vi giace non sta stretto
Nella casa vive un uomo che gioca colle serpi che scrive
che scrive in Germania quando abbuia i tuoi capelli d’oro Margarete
egli scrive egli s’erge sulla porta e le stelle lampeggiano
egli aduna i mastini con un fischio
con un fischio fa uscire i suoi ebrei fa scavare una tomba nella terra
ci comanda e adesso suonate perché si deve ballare…
egli aizza i mastini su di noi ci fa dono di una tomba nell’aria
egli gioca colle serpi e sogna la morte è un Maestro di Germania
i tuoi capelli d’oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith.”[3]
Lucrezia Lombardo
© Paul Celan, fotografato da Gisèle Celan-Lestrange. Copyright owner: Eric Celan (Paris) and Suhrkamp Verlag (Berlin).
[1] Dalla raccolta Von Schwelle zu Schwelle, trad. it. Di soglia in soglia, Einaudi, Torino 1996.
[2] Ibidem.
[3] Dalla lirica Todesfuge, trad. it., Fuga di morte (prima versione composta nel 1944; versione definitiva del 1954).