Giovanni Rapazzini de’ Buzzaccarini – Inediti

Giovanni Rapazzini de’ Buzzaccarini, nato a Milano nel 1993, vive tra l’Italia e la Spagna dedicandosi alla contemplazione, alla filosofia e alla poesia. A breve uscirà il suo primo libro, un saggio concepito come un poema scientifico in prosa intitolato: “La poesia e il divino, un viaggio alle origini della parola”.

 

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Stelle, fate la mia lingua tanto forte
che una sola scintilla uccida la morte,
date alla gente fede nel ricordo del cielo,
squarciate il gelo opaco della depressione.

Alcor, vaga stella dell’Orsa Maggiore
sotto il tuo cappello, come un velo di seta
sulla superficie delle cose, dorme l’amore,
la culla della natura dove nasce l’universo.

Morirò sereno nel ricordo dell’eternità
precipitando verso spazi infiniti,
sotto gli artigli di una tigre senza nome
tra le vaghe stelle dell’Orsa Maggiore.

La vita intera trascorsa nella luce
come un girasole, cercando consigli,
scrivendo sui petali dei gigli, Alcor,
sarò di nuovo la fiamma nei tuoi occhi.

 

*

Quando sorridi hai le stelle nell’iride
le pupille dilatate come galassie,
lo sguardo infuocato da comete e meteore –
con amore fissi il sole e la morte.

Così non cedi al terrore della bellezza
non sei distrutta dal nulla e dal tutto,
ma contempli fulmini e saette
in un tempo senza tempo, fuori lo spazio.

 

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Dopo essere uscito dalle mura del palazzo
E aver attraversato i giardini con le fontane
Che zampillano scintille d’acqua in verticale
In una danza cerimoniale di gocce
Ho camminato per le strade
Dove il popolo si ama e si ammazza;
dormivano in molti sconvolti dalla miseria,
e quasi impazzii per l’ingiustizia
ma una fiamma sovrannaturale su quei fagotti
Aprì un sentiero di candele fatue per il deserto,
e i mosaici domestici divennero sabbia,
le colonne dune nel vento.

Come le palpebre a un fragore, d’improvviso
si spalancò una voragine ai miei piedi
e caddi, dentro una caverna
come un corpo morto sulla terra
in un tempo senza cornice,
in uno spazio senza paesaggio,
la stanza di pietra era quasi tutta tenebra
un leone mugolava ferito
sanguinava come una rosa
aveva spine nelle zampe e in bocca,
mi avvicinai, e con la destra che carezzava
estrassi i chiodi vegetali con la sinistra.

Da quel momento fummo inseparabili
come l’idea dell’acqua dalla sete,
come l’idea del cibo dalla fame,
in una storia di caccia e d’ascesi
che non terminò più, anche quando
dopo molti anni ritornai a casa,
le statue ricordavano i miei pensieri
le piante le mie lacrime e il leone
sempre al mio fianco, invisibile agli altri
era testimone dell’anacoresi,
della stagione in cui imparai ad amare
il silenzio degli universi.