Elisa Ruotolo, Alveare (Crocetti-Idee editoriali Feltrinelli, 2023)

Recensione a cura di Emanuele Canzaniello

L’intelligenza alveare muove e permea le celle e le gallerie di questo segmento cosmico in cui indistinguibili scivolano l’uno nell’altro il microcosmo delle api e il macrocosmo non dell’umano ma dell’universo. L’intera struttura del libro imita nelle sue sezioni e in ogni testo la natura, le funzioni, i destini e i processi della vita delle api e del loro dominio, quel mistero ulteriore che non decifriamo, immagine dell’altro. Dalle figure dell’ape regina, all’asservimento dei suoi figli, allo stesso tempo popolo di servi, alle figure della cella, della secrezione, del pungiglione, del veleno, della brevità delle loro vite, dell’estinzione sempre prossima di un universo finito ma che si pensa infinito, tutto questo, labirintico e ossessivo, è sempre presente in ogni voce, in ogni tratto, in ogni minima sezione di verso. Creando insieme la costante illusione che non si stia parlando di alveare o ape ma di umano, o d’altro ancora, fino a perdersi nel disciogliersi dei presunti confini naturali o degli attributi del reale. Lo scivolamento è continuo e vertiginoso, e tutti sappiamo di venire “da questa cella che sa tutto di me/e io non indovino”. Questo è l’universo per noi e per loro, alveare dai piani infiniti e dalle infinite celle inconsistenti, pronte a sfaldarsi, crollare, ed essere succhiate ad ogni nuova secrezione o stagione. Al centro di questo cosmo la regalità si nutre e si alimenta di condanna: “Il mio potere mi condanna a infittire/una genia di servi da cui dipendo/mentre vivo, divento nelle loro mani/la bambina che mai sono stata/ e che morirebbe – se non fosse nutrita”. Perché i figli del popolo, gli ultimi di questo mondo, sanno bene “che fin dal colostro accettano il privato/mistero di non avere tempo per ridere/o per giocare”. Metafisica e cosmogonia, ma anche politica ed etica, miniatura aristotelica dentro le misure delle vite dell’animale più sacro al mondo antico. Il volto e il corpo di Alessandro si videro e si contemplarono ad Alessandria per tre secoli sotto miele, in una mummificazione forse egizia e arricchita dall’aurea secrezione delle api.
Prima di scomparire dalla storia e non essere mai più visto. Miele, oro e regalità. Ricamo dei manti dei re. “Grava sul cuore saperlo/di non avere madre che enumeri i nati/ battendone i nomi sull’unghia/né avere destino oltre quello che sfinisce/e di più – di non avere scelta”. Le api che incarnano le figure del lavoro, della sottomissione, dello sforzo sanno solo questo, in ogni cella e in ogni cosmo, di non avere altro destino che quello che sfinisce e che non è scelta. In questo alveare, in questo libro naturalistico e simbolico, allegorico e distante, sacrale ed entomologico, non c’è scampo. Un verso lungo, compatto, a volte narrativo, a tratti quasi di poema didascalico antico o di epica postmoderna in versi, martella e ordina, spia e classifica, fa l’inventario e la condanna di ogni cosa, di ogni anfratto. Maternità e potere, due rovine che si mescolano e si afferrano, dentro la struttura in cui ad ogni stagione penetra una luce d’incendio quando l’alveare viene squarciato, penetrato dalla luce dell’altra dimensione, di quello che per noi è il nostro umano piano di realtà. Il mondo del sole terrestre e degli apicoltori. La solitudine di quel mondo chiuso è ramificata in ogni cellula, in ognuna delle sue facce. Solitudine del desiderio, quando si riconosce che “Desiderare non è servito a farsi/sogno oppure ossessione/di qualcuno.” Solitudine della cura quando l’ape asservita dice “Non conosco il sapore della cura/quello del cibo reso prezioso/dalle mani”. Solitudine del lavoro nella sua essenza, nella sua metafisica. Come esiste una metafisica della sessualità annusata, percorsa in ogni verso, così esiste in questi testi una metafisica del lavoro come condanna e condizione alveare senza uscita: “vivere per me è questo far da manovale/in una città che non mi avrà per molto./Sarò esclusa da tutto ciò per cui vale/nascere, e l’amore potrò annusarlo/immaginarlo, vederlo traboccare dalle culle”. La funzione della costruzione e dell’architettura in questo cosmo interamente architetturale, dice: “Non potrei costruire/se un’altra forza non agisse contraria/regredendo all’abbozzo/facendo un fossile di ciò che è vivo”. Ogni funzione del mondo di questi animali diventa una macro-metafora della fondazione di ogni società, di ogni costruzione di linguaggio e di assenza del linguaggio, di ogni costruzione tout-court. “Io creatura della distruzione – mentre riempio vuoti/o misuro perimetri, mentre disegno l’esagono perfetto/in cui lo spazio non si pieghi al sacrificio/ma all’utilità – la maneggio cautamente/ricordando che ogni asilo/cauterizza il vagabondaggio/e credere in una casa significa/ipotizzare Dio”. Ma dopo questa soglia, dopo l’ombra di Dio, le sezioni che erano state compatte ed estese, si spezzano e l’ultima, che ci porta alla fine, ha per titolo Voci spezzate, i testi si infrangono, si frantumano, si abbreviano e si dispongono diversamente sulla pagina. Dov’è finita la vita organica dell’alveare? Qui sembra franare e collassare ogni funzione, ogni costruzione, tutto balbetta l’implodere. Ogni organismo sembra impossibile, ogni legame prima creduto e rafforzato, ogni legame cellulare, ogni legame tra le galassie, ogni legame neuronale tra le creature e dentro ognuna sembra insostenibile. Dove regnava l’intelligenza segreta di questa struttura sacra sembra depositarsi il silenzio. “Generare è imporre un destino/di albe calcolate – chiedere non si può perdono/né ubbidienza”. E secondo generazione, o per condanna di generazione “alla periferia del tempo” con le “ali in fatica e il dubbio di non arrivare” si insinua la ripetizione, il riformarsi organico della vita, errore o benedizione.

Emanuele Canzaniello

Elisa Ruotolo, scrittrice e poetessa, è nata a Santa Maria a Vico (CE), dove vive. Esordisce nel 2010 con la raccolta di racconti pubblicata da nottetempo Ho rubato la pioggia, Premio Renato Fucini e finalista al Premio Carlo Cocito. Il suo primo romanzo Ovunque, proteggici – uscito per nottetempo nel 2014 e riproposto da Feltrinelli nel 2021 – è stato finalista al Premio Internazionale Bottari Lattes Grinzane e Selezione Premio Strega 2014. È del 2018 il suo primo testo per ragazzi intitolato Una grazia di cui disfarsi. Antonia Pozzi, il dono della vita alle parole (edizioni RueBallu), cui fanno seguito, nel 2019, la curatela del volume Mia vita cara. Cento poesie d’amore e silenzio di Antonia Pozzi (Edizioni Interno Poesia) e la pubblicazione della raccolta poetica Corpo di pane (nottetempo). Il suo secondo romanzo, Quel luogo a me proibito (Feltrinelli, 2021) è stato finalista al Premio Rapallo e al Premio Bergamo, ed è stato tradotto in Francia dall’editore Cambourakis. Nel febbraio 2023 ha pubblicato con l’Editore Bompiani Il lungo inverno di Ugo Singer.

La foto di Elisa Ruotolo è di Mauro Zorer.

Emanuele Canzaniello è nato a Napoli nel 1984. Ha pubblicato il libro di poesia Per l’odio che vi porto (2017), e I migliori film mai girati (2019) una raccolta di recensioni a film immaginari. Ha pubblicato saggi di teoria e critica letteraria in riviste e in volume, e il libro sull’influenza estetica del totalitarismo in Francia e in Italia “Crimini della bellezza. Un canone del romanzo fascista” (Aracne, 2016). Nel 2023 edito da PeQuod è stato pubblicato il nuovo libro di poesia, In principio era la paura (2023). Nel 2024 uscirà per Wojtek il “Breviario delle Indie”.