“Le farfalle” (Interno Libri Edizioni, 2023), a cura di Giuseppe Grattacaso – Anteprima editoriale

Come dal germe ai suoi perfetti giorni
giunga una schiera di Vanesse; quali
speranze buone e quali fantasie
la crëatura per volar su nata
susciti in cuore di colui che sogna
col suo lento mutare e trasmutare,
la maraviglia delle opposte maschere,
la varia grazia delle varie specie,
in versi canterò… Non vi par egli,
non vi par egli d’essere in Arcadia?

Dolce Parrasio! Dileguati giorni
dell’Accademia, quando il Mascheroni
con sottile argomento di metalli
le risentite rane interrogava.
Le querule presaghe della pioggia
(altro presagio al secolo vicino!)
stavano tronche il collo. Con sagace
man le immolava vittime a Minerva
su l’ara del saper l’abate illustre,
e se all’argentea benda altra di stagno
dalle vicine carni al lembo estremo
appressava, le vittime risorte
vibravan tutte con tremor frequente.
L’orobia pastorella impallidiva
sotto le fresche rose del belletto,
meravigliando alla virtù che cieca
passa per interposti umidi tratti
dal vile stagno al ricco argento e torna
da questo a quello con perenne giro.
Di sua perplessità – dubito forte –
si giovava l’abate bergamasco
per cingere lo snello guardinfante
e baciare furtivo (auspice Volta!)
tra l’orecchio e la vasta chioma nivea
la dotta pastorella sbigottita.

Ma voi, sorella, non temete agguati
dal fratello salvatico in odore
di santità? Con certo ritüale
arcadico (per gioco!) e bello stile
(per gioco!) altosonante, come s’offre
nova un’essenza in un cristallo arcaico,
queste pagine v’offro, ove s’aduna
non la galanteria settecentesca,
ma il superstite amore adolescente
per l’animato fiore senza stelo;
offro al vostro tormento il mio tormento,
vano spasimo oscuro d’esser vivi,
a voi di me più tormentata, a voi
che la sete d’esistere conduce
per sempre false imagini di bene.
Forse lo stanco spirito moderno
altro bene non ha che rifugiarsi
in poche forme prime, interrogando,
meditando, adorando; altra salute
non ha che nella cerchia disegnata
intorno dall’assenza volontaria,
come la cerchia disegnata in terra
dal ramoscello dell’incantatore:
magico segno che respinge tutte
e le lusinghe e le insensate cure;
solo rifugio dove il cuore spento
vibri fraterno e riconosca l’Uomo,
ché più non vede l’esemplare astratto,
ma la specie universa eletta al regno
del mondo. E come il Dio d’antichi tempi
appariva all’asceta d’altri tempi,
così l’asceta d’oggi senza Dio
sente nel cuor pacificato un bene
sommo, una grazia nova illuminante,
lo Spirito immanente, l’acqua viva,
e si disseta più che alle sorgenti
che mai non troverete, o sitibonda…

Queste, che dico, dissi a voi parole
or è già molto, camminando a paro
per una landa sconsolata e voi,
mal soffrendo il velen dell’argomento,
con la mano inguantata il ciuffo a sommo
coglieste d’un’ortica e mi premeste
sulla gota la fronda folgorante,
tortuosamente. Non mi punse quella
che più forte s’accosta e men ci punge;
e nel gesto passare vidi un cumulo
minuscolo di germi di Vanesse
sulla villosa nervatura e forse
dal vostro gesto, ancor agropungente,
nato è il poema, poi che sul mistero
del piccolo tesoro accumulato,
già in quell’istante, con parole sciolte
taluna esposi delle meraviglie
che più tardi nel mio silenzio attento
passo passo tentai chiudere in versi.

***

Ornithoptera Pronomus

Sopra l’astuccio nitido di lacca
una fascia di seta giavanese
evoca un mare calmo che scintilla
tra i palmizi dai vertici svettanti.

Mi saluta un mio pallido fratello
navigatore in quelle parti calde
d’India, mi parla delle mie raccolte,
ricorda la mia grande tenerezza
per le cose che vivono, rimpiange
di non avermi seco nelle valli
favolose, mi manda una farfalla
che mi porti il saluto d’oltremare
attraverso la mole della Terra,
dalle selve incantate degli antipodi.
Con un tremito lieve delle dita
apro l’astuccio d’erba contessuta
e in un bagliore d’oro e di smeraldo
ecco m’appare la farfalla enorme
che mi giunge di là, che riconosco.
L’Ornithoptera Pronomus, la specie
simbolica dell’isole remote,
la maraviglia che i naturalisti
del tempo andato, reduci da Giava,
dalle Molucche, dalla Polinesia,
ci descrissero in libri malinconici.
L’Ornithoptera Pronomus, la mole
abbagliante che supera ed offusca
le più belle farfalle dei musei.

Con un tremito lieve nelle dita,
il tremito che forse l’entomologo
comprende… estraggo delicatamente,
esamino il magnifico esemplare.
Mistero intraducibile ch’emana
dalle farfalle esotiche! Lo sguardo
si perde, si confonde sbigottito
come da forme soprannaturali;
misera veste delle nostre Arginnidi,
delle nostre Vanesse, delle nostre
più belle specie, comparate a questa
meravigliosa forma d’oltremare!
Medito a lungo e l’occhio indagatore
pur già discerne qualche analogia;
anche questa bellezza che m’abbaglia
come una forma non terrestre, come
una specie selenica, fa parte
della grande catena armonïosa,
ha remoti parenti anche tra noi.
Le zampe lunghe speronate, l’ali
angolari dal margine ondulato,
l’addome snello pur nella sua mole,
un po’ ricurvo, il corsaletto breve,
la breve testa dalle antenne a clava,
fanno dell’Ornithoptera il cugino
barbaro del Papilio Podalirio.
Ma come travestito! L’ali sono
immense, di velluto nero, accese
da larghe zone d’una brace verde,
un verde inconciliabile col nostro
pallido sole settentrïonale,
l’addome è giallo, un giallo polinese
intollerando sotto i nostri climi.

La farfalla è brevissima, tutt’ala,
stupendamente barbara, inquetante
come un gioiello d’oro e di smeraldo
foggiato per la fronte tatüata
d’un principe, da un orafo papuaso
ch’abbia tolto a modello il Podalirio
nostrano, ingigantendolo, avvivandolo
di colori terribili, secondo
l’arte dell’arcipelago selvaggio.
E la farfalla, che non so pensare
sui nostri fiori, sotto il nostro cielo,
ben s’accorda coi mostri floreali:
gnomi panciuti dalle barbe pendule,
ampolle inusitate, coni lividi
evocanti la peste e il malefizio;
s’accorda coi paesi della favola
sopravissuti al tempo delle origini:
vulcani ardenti, moli di basalto,
foreste dal profilo mïocenico
dall’aria dolce senza mutamento,
dove la luce tremola e scintilla
tra il fasto delle felci arborescenti.

***

Dalla prefazione di Giuseppe Grattacaso: Il poemetto Le Farfalle, le Epistole entomologiche che Gozzano cominciò a scrivere presumibilmente nel 1909, poi rimasto incompiuto, continua ad essere considerato un testo anomalo, incidentale, non del tutto dialogante non solo con le precedenti raccolte del poeta, ma in fondo nemmeno con le esperienze letterarie di quegli anni, certo nulla di ascrivibile a una corrente, a un gruppo, a un’immagine riconoscibile.
Pesa sui versi il giudizio di Edoardo Sanguineti, che fu tra i primi a sottolineare in maniera più argomentata la
centralità dell’esperienza di Gozzano nella poesia del Novecento, ma che a proposito delle Epistole parlò di “disastro”. Per Sanguineti Gozzano si esprime interamente e si risolve in un’unica opera, il libro dei Colloqui. Una condanna netta proviene anche dal saggio di Bruno Porcelli, Gozzano e Maeterlinck, ovvero un caso di parassitismo letterario, pubblicato inizialmente nelle pagine della rivista “Belfagor” nel 1969, che appunto fa derivare passione entomologica e versi in gran parte dalla lettura, assorbita peraltro in maniera frettolosa o comunque interessata, di due libri di Maurice Maeterlinck, La vie des abeilles e L’intelligence des fleurs, pubblicati rispettivamente nel 1901 e nel 1907.
Un’attenzione diversa alle Farfalle e al suo autore si svolge parallelamente, ma forse con minore capacità di incidere, a partire dagli scritti di Giovanni Getto e Giorgio Bàrberi Squarotti, e soprattutto grazie all’illuminante riflessione di Lorenzo Mondo, contenuta in Natura e storia in Guido Gozzano (anche in questo caso del 1969), in cui il critico evidenzia come il poemetto costituisca, nella produzione di Gozzano, un superamento della poesia intesa “come rifugio del cuore e dell’intelligenza”, conducendo dunque all’eliminazione “del diaframma tra se
stesso e il mondo”, barriera invece presente nelle opere pubblicate in vita. Insomma il poeta approda, dopo un suo viaggio interiore e poetico, alla “riscoperta della realtà: non quella umile e mortificata della villa canavesana ma una realtà metafisica”…
Anche Giorgio De Rienzo in Guido Gozzano. Vita breve di un rispettabile bugiardo (1983), che riguardo alla poesia di Gozzano espresse considerazioni tutt’altro che lusinghiere, parla delle Epistole come “del nucleo più alto del pensiero e della poesia di Gozzano”, aggiungendo però che di fronte a tanta altezza il poeta “si smarrisce”. Le Farfalle finiscono per essere, anche in questo caso, un incidente nel percorso del poeta, ma nel senso che Gozzano si rivela incapace di dare una forma coerente e solida a una materia che è troppo più elevata degli strumenti in suo possesso, strumenti limitati, sembrerebbe di capire, sia sul fronte espressivo che per quanto  riguarda i presupposti speculativi…

Guido Gozzano nasce a Torino il 19 dicembre 1883 da un’agiata famiglia di Agliè. Dopo studi liceali non certo brillanti, si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza, ma segue con passione i corsi di letteratura tenuti da Arturo Graf. Attratto inizialmente dal modello dannunziano, matura poi una diversa idea della poesia, soprattutto attraverso la lettura di Pascoli, Laforgue e Maeterlinck. Nel 1906 conosce Amalia Guglielminetti, con cui inizia una lunga relazione affettiva e intellettuale. Nel 1907 pubblica La via del rifugio. Nello stesso anno apprende di essere malato di tubercolosi. Nel 1911 pubblica I colloqui e comincia a collaborare con importanti quotidiani e riviste. All’aggravarsi della malattia, decide di compiere un viaggio in India. I resoconti del viaggio sono
pubblicati da La Stampa e poi postumi in volume con il titolo di Verso la cuna del mondo. Lettere dall’India. Nel 1914 pubblica alcune parti del poemetto Le farfalle, a cui lavorava da anni, destinato a rimanere incompiuto. Appassionato ed esperto entomologo, già nel 1911 aveva scritto soggetto e didascalie per il cortometraggio scientifico La vita delle farfalle di Roberto Omegna. Muore a Torino il 9 agosto 1916.