“L’ala virata” (peQuod, marzo 2023, collana Rive, con prefazione a cura di Roberto Deidier) di Davide Gariti si delinea come un’opera poetica frutto di una lunga gestazione, che ha visto l’autore impegnato in un minuzioso lavoro di cesello e riflessione. Echi novecenteschi si dipanano lungo tutta la raccolta, definendo ciononostante uno stile peculiare e assai riconoscibile, come peraltro segnalato da Deidier in prefazione:
[…] In questo senso Gariti si inserisce in un filone primario del nostro Novecento più speculativo, da Sbarbaro a Zanzotto a Fiori, solo per citare alcuni precedenti, ma non sorprende, ampliando l’orizzonte delle letture e degli autori con cui dialoga, trovare quasi in apertura un testo dichiaratamente ispirato a Seamus Heaney[…] consideriamo che questa è, di fatto, la vera, compiuta opera d’esordio di un autore più che quarantenne. E se si paragona questa scelta (forse questo destino) al furore editoriale delle generazioni più giovani, si avverte come Gariti abbia coltivato nel profondo non solo la lezione dei maestri (penso anzitutto a Pasolini e Fortini, a lungo letti e assimilati), ma abbia anche affinato un proprio strumentario, all’insegna di quel sano artigianato che risponde in definitiva all’acquisizione di uno stile, e di una tecnica. Se la poesia, nel suo farsi, è anche necessariamente attesa, ci troviamo di fronte a un autore che proprio dell’attesa ha fatto la sua arma migliore. Questo poeta si presenta oggi ai lettori che gli auguriamo in un abito espressivo ormai maturo. Il suo è lo sguardo del nostro presente. È da qui che Gariti osserva, indaga, si lascia penetrare dalle sue piccole visioni per restituircele nel fuoco delle sue, delle nostre attenzioni. Il suo andamento così convincente, assertivo, è il risultato di uno scavo (per questa via riconosciamo l’impronta dell’irlandese) nel cuore vivo dell’esperienza, per trarne ogni possibile grumo di significazione e passarlo, a sua volta, al filtro di quello stile duramente conquistato.
Alla perizia stilistico-formale fa eco l’abilità poetica di ritradurre il reale per fratture visive che però aspirano al massimo della significazione possibile. Lo sguardo poetico procede per sottrazione, operando sulla realtà in modo chirurgico per disvelarne i particolari nella loro intima comunione e contraddittorietà. Rimessa in movimento attraverso il processo percettivo della visione, l’immagine è così isolata nella sua fissità di “segno”, come se infine l’intentio auctoris corrispondesse alla volontà di fotografare l’istante nella vertigine e nel vuoto. A tal proposito, Deidier osserva:
[…] provoca spesso l’insorgere di una spinta metaforica, che sposta su un altro piano di significato la sostanza dell’immagine. Così ciò che viene offerto agli occhi del lettore si rende vivo, mobile e soprattutto dialettico, rispetto a quell’insieme di valori, di nozioni, di riflessioni e investigazioni sui quali il soggetto fonda le proprie consuete coordinate conoscitive; nel giro di pochi versi, se non in un unico verso, si rischia una piccola, ma quanto pregnante e definitiva vertigine esistenziale. La virata ha raggiunto il suo effetto. Come l’immagine giunge a significare altro, così la metafora può insorgere dal tessuto stesso dei versi, attraverso un processo elementare di personificazione del dato naturale, oppure può lasciarsi agire da una similitudine. Gariti non si risparmia, in questo atteggiamento espressivo, al punto che il processo di traslazione del reale osservato può tranquillamente variare anche all’interno di una stessa poesia e con riferimento a uno stesso soggetto.
Il valore epifanico dell’esperienza diviene spunto d’indagine: il poeta intercetta nella visione le zone d’ombra, i confini incerti fra la stasi e la trasformazione. L’oggetto viene quindi trasfigurato in una dimensione poetica che ne rivela la precarietà e la vertigine sul vuoto. Inoltre, in questa cornice il tempo appare sfumato e privo di coordinate precise ma ciononostante chiamato alla ripetizione sempre uguale delle proprie leggi di vita e morte:
Il giorno sfila
lungo le mediane di soli triti.
Una giovane
si disfa dei libri
al ritorno da scuola,
tra i flutti cittadini la spirale
della notte in arrivo.
Figli di figli si dicono addio,
è la vita scossa,
un suono apparente.
Sin dal titolo, “L’ala virata”, l’opera enuncia il senso di una poesia che muove dalla vertigine attorno alle cose. Le quattro sezioni in cui si articola (“Natura”, “Amore”, “Nell’iride”, “Urbane”), implicano, nel passaggio dall’una all’altra, una lieve flessione, come se volta per volta lo sguardo poetico restituisse al lettore un di più rispetto alla rappresentazione precedente di cui tenere conto. Evidente nella sezione è l’influenza di Seamus Heaney: la natura si anima, convogliando in sé le voci indefinite del tempo e dello spazio:
“Leggendo Heaney”
Un granaio nel ventre,
lo squarcio sul muro.
Metallo freddo
alla precisa latitudine
di ruggini grezze,
la campagna
ondeggia lieve
perturba le case
mattoni scuri,
un trattore aspetta
che la chiave giri
in senso orario.
L’occhio di Gariti mira come quello di un cecchino: l’obiettivo è captare gli attimi della vertigine in cui si apprestano i rovesci. Non può non sovvenire la lezione di Giorgio Caproni ne “Il franco cacciatore”, raccolta il cui tema è quello di una caccia assai particolare, “la caccia a Dio”, destinata a risolversi in un inevitabile fallimento:
“Antefatto”
Sedetti fuor dell’osteria,
al limite della foresta.
Aspettai invano. Ore e ore.
Nessun predace in cresta
apparve della Malinconia.
Aspettai ancora. Altre ore.
Pensai, in straziata allegria,
al colpo fulminante
del franco cacciatore.
L’esperienza poetica di Gariti è ricca di rimandi, metafore, allusioni. Essa pare funzionare come cassa di risonanza anche degli eventi minuti e impercettibili, come il procedere di una formica che ferisce “a piccoli passi la terra”:
Nell’ora del silenzio
si può toccare la notte,
raschia i suoi fumi lontani
e gente e cani
sugli altari terrestri
si animano di un’altra
voce, un’altra croce.
Si può scorgere
la formica ferire
a piccoli passi la terra.
La seconda sezione, “Amore”, si svolge attorno al tema di una figura evanescente, il cui ricordo è immalinconito dal motivo della quête e da atmosfere lugubri, segnate dall’imminenza del congedo:
Ci tocca stare in fila
come cipressi abbuiati
in quei viali di ottobre
dove tra i solchi dei formicai
si aspetta il giorno nuovo.
Non trova più il suo corpo
l’ombra che ha ricordo.
La cornice urbana figura come dimensione alienante, nella quale il soggetto vanamente conduce la propria ricerca inesausta:
A un’ora dal diluvio
coi lampi in fila nel buio
ti cercavo a dismisura
oltre la strada sommessa
e i passanti distratti.
Cercavo il ricordo di te
senza indugio
nel tuo sorriso una grata
a protezione
di un campo di tulipani.
Il corpo è un relitto che si tramanda di tempo in tempo e che è inevitabilmente soggetto a subire il contraccolpo verticale della Storia. “Nell’iride” registra questo processo rovinoso, di fatto richiamandosi talvolta a qualcosa di remoto che ha radici nella morte e nella corruzione delle cose:
Il mio corpo inchiodato
allo stipite del mondo
sa ancora essere un corpo.
Di lui ho certezze
che si annidano lontano
resistenze offuscate
dentro i palmi nudi
fitte corrispondenze
tra i globi degli occhi
informazioni preziose.
Ma i chiodi corrosi
non si spezzano
attendono composti
le stagioni future.
Echi pascoliani si ravvisano nei versi di Gariti, adombrando il mondo di un velo di morte e voci fantasmatiche:
Che sai di questa strada perduta
nelle voci passate? Fantasmi
leggeri, inconsapevoli: i morti
non parlano mai, recano incanto
nel buio degli anni nostri brevi.
I tuoi occhi s’aprono di mattina
lenti, sul teatro di morte
che non si riscatta.
Motivi autobiografici si mescolano agli scenari descritti. Su tutti spicca l’immagine paterna, in cui si condensano le leggi archetipiche della vita e della morte:
Sono i magneti della mia storia
queste voci che s’accalcano, lontane:
gli idiomi stanchi del mio cammino.
Una perdura ed è profonda
quella di mio padre.
L’impronta che scaglia
sul volto è marcata
di un solo addio, una sola voce.
La notte è alta, ormai non c’è più
il sogno che spera nel sonno,
ma le mani rigide a scriverti nel ricordo.
La poesia di Gariti pare risolversi in un processo astratto di ricognizione della propria memoria. Le immagini “si conficcano” nella mente, a dimostrazione del fatto che esse vengono poi sottoposte a un’opera di sedimentazione volta a ridurle ai minimi termini:
Odoro le pagine vive
in un libro di Fortini
e i marciapiedi di campagne
i soli e i mendicanti, alberi e resina,
i giovinetti e le chiese
alle cimase, oltre i covoni
mi si conficcano nella mente
come fossero ricordi
di giornate perdute, lontane…
dove non è tempo quello del macero
non è sostanza più efficace
di questa mia narice che pressa sul foglio.
In tal senso, preziosa si rivela la lezione di un altro maestro di Gariti, Sandro Penna:
Tutto il mondo mi è fraterno
dal mio piccolo balcone.
Sorprendermi così, come un randagio
alla carezza della sera.
Proprio a Sandro Penna è dedicato uno dei componimenti della sezione:
A Sandro Penna
L’anima racchiusa
nel corpo umano
è una barca,
una campana in lontananza.
Sul tuo viso
non riconosciuto
di fanciullo amaro,
una posa silenziosa
un grido.
Nel tempo delle schiarite
s’è imbiancato il tuo letto
sudato, e ripiomba nel buio
il crocefisso al tuo capezzale.
Non colpa
né animale sofferenza
ma natura nuda
di nuda coerenza.
Il rapporto con i maestri non è vissuto in modo meramente imitativo: Gariti riesce infatti a ritagliarsi un proprio stile, venato dalla tendenza ad astrarre dagli oggetti la loro componente mobile per fissarla poi in una versificazione minimale e asciutta.
“Urbane” è la sezione che chiude la raccolta. Lo scenario cittadino restituisce squarci dolenti, in cui il corpo si trova dislocato senza armonia e maggiormente esposto alle inquietudini che affliggono lo sguardo dell’io poetante. Sono scenari corrosi quelli di Baden Baden, che l’io poetico attraversa pasolinianamente alla ricerca di un nesso con la vita:
Slabbra in ampi cerchi
il fumo al cielo,
hanno bruciato un altro
corpo invisibile,
tuonano giochi d’artificio
dai quartieri sudici,
il tintinnio delle stoviglie
nelle cucine di madri
assenti, sui cigolii
dei portoni accostati,
l’ora è tarda e tarda è la vita.
A suggellare il bisogno di una riconciliazione con il proprio Sé è la rievocazione della figura paterna, che si anima da una “cornice ingiallita”, corrosa dal tempo:
Mio padre mi parla dalla sua
cornice ingiallita,
un eremo
entro il sorriso gioioso.
Moriremo senza digiunare
rompendo il discorso iniziato
in un pomeriggio di avanzi.
Infine, a trionfare è la circolarità del tempo e delle sue leggi:
Nel parco schiusero voci
alle meridiane del mattino
i cerchi dei corvi
tracciarono i sentieri
di quello smottamento lineare
che erano i declivi e le antenne
ritte dei girasoli.
Non morire, adesso sei vivo:
amore, figli e carne.
Dondolàti piano,
cranio autistico del tempo.
* * *
* * *
Davide Gariti è nato a Palermo il 3 Settembre del 1976. Nel 2003 la sua prima menzione d’onore, al premio Inycon, con la poesia “la terra tremante”, alla presenza di Mario Luzi. La seconda menzione d’onore arriva all’interno di una delle sezioni che hanno preceduto il premio G. Tomasi di Lampedusa nel 2005. Nel 2010 ha pubblicato all’interno dell’antologia poetica Calpestare l’oblio a cura di Gianni D’Elia, Davide Nota e Fabio Orecchini. È presente su diverse riviste on line, quali Nuovi Argomenti, Atelier, L’estroverso, LaRecherche.it, La Gru e Pasolini.net. Nel 2014 ha pubblicato la sua prima silloge di poesie dal titolo “Due minuti all’ombra”, sulla rivista ‘LaRecherche.it’. L’ultima sua opera è intitolata L’ala virata, edita da Pequod – 2023, con prefazione di Roberto Deidier.