Cristiano Poletti “Temporali” (Marcos y Marcos, 2019)
Lettura di Prisca Agustoni
La recente raccolta poetica di Cristiano Poletti, Temporali (Milano, Marcos y Marcos, 2019) rivela, oltre a una tappa importante e matura del suo percorso – così come segnalato da Fabio Pusterla sulla bandella del libro – un interessante movimento di ricognizione lirica caratterizzato da una pausa conoscitiva, un’attesa piena di senso rivolta al contempo verso il mondo interiore e quello esteriore del poeta, come un pendolo che lento e preciso gravita da un punto all’altro della sua traiettoria, anche autobiografica. Il pendolo oscilla in modo costante, mosso dalle diverse forze che entrano in gioco, e su tutte, mi piacerebbe evocare qui due facoltà conoscitive dell’uomo che sembrano predomianare nell’approccio alla realtà, presente nella silloge di Poletti: l’attenzione e l’ascolto.
Se l’attenzione, nella tradizione filosofica occidentale (da Descartes a Leibniz a Kant) è un predisporsi per la presa di coscienza delle proprie rappresentazioni degli eventi della vita, siano questi astratti o concreti, l’ascolto sembra rivogersi alla voce, al dialogo, all’altro: essere all’ascolto indicherebbe quindi lo stato vigile di chi è proteso fuori da sé (pur scandagliando l’io, ricordando il noto Je est un autre di Rimbaud), l’intenzione quindi, l’impegno nel voler comprendere, grazie ad una naturale curiosità conoscitiva, i significati profondi che ci sfuggono, sia grazie al confronto diretto con l’altro, sia attraverso la contemplazione della natura o del paesaggio, aspetti sui quali torneremo.
Questi mi sembrano alcuni degli elementi che definiscono il percorso conoscitivo in Temporali, dove sin dalla prima sezione, Religione di un giorno, troviamo un soggetto inquieto che, pur ancorandosi alla materia (“con le mani cerco”, p.11) e al quotidiano, soprattutto domestico (“nel quadro di una casa”, idem), opera uno scavo in profondità, alla ricerca di significati nascosti, che evocano un “discorso religioso” (idem), inteso qui come una pratica che accomuna gli uomini a un unico destino, tale e quale si legge nella poesia Semplice (p.14): “ […] Risaliremo il destino /tra la tomba degli angeli /e quella degli uomini. // Sono uguali inchiostri i nostri /debiti d’amore”, dove l’accento dato all’allitterazione della vocale “i” suggerisce la leggerezza intrinseca al movimento dell’ascesi, della verticalità. La risalita, appunto.
È interessante avvicinare i versi di Poletti a un repertorio di rinvii intertestuali espliciti o meno, legati a maestri della poesia. Impossibile infatti leggere Temporali senza pensare all’ascesi contemplativa petrarchesca – fisica e spirituale – al monte Ventoso. Il vento è qui evocato come fenomeno climatico e metaforico che preannuncia la tempesta che si abbatterà nell’anima di Petrarca. Anche in Poletti esiste questo percorso iniziatico verso le cime motagnose, caratterizzato dalla contemplazione del paesaggio da parte di chi cammina.
Anche Walser, forse come Poletti, faceva del camminare un lungo percorso di indagine filosofica sulla natura delle cose e dell’io. Sulla cima, poi, sostare, come nella splendida poesia Alto Ticino, luglio: “Volevamo salire nella vostra estate /raggiungervi, così eccoci /sopra […] /Tutto il sentiero è stato /un sapere, che in una sola era /ognuna delle attese” (p.75-76). Poco oltre, dopo aver affermato che “il grande specchio in cui si riflette il mondo è rotto” dalla parola, lo sguardo del poeta coglie la cima e la inquadra in un ritratto ingessato nel tempo, che cerca di nascondere i turbamenti umani: “il monte /appuntito nel cielo, ecco la sua /natura, dura pietra grigia e scura […]. Così anche noi guardiamo /in quella direzione, dove l’attesa va /infilandosi in un’altra cornice” (idem).
Non a caso una sezione del libro s’intitola appunto Altitudini. Le poesie che la compongono sono fortemente centrate attorno a questa dicotomia, il saliscendi costante di rilievi e di dimensioni interiori, che nient’altro fa se non rivelare le orme della sua tenace ricerca, come dei segnali lasciati da un cerbiatto nella neve.
Come già detto, salire, scendere sono verbi cari al poeta e sembrano indicare una tensione verso l’oltre e delimitare questa zona limitrofa che è l’atto in potenza, ciò che forse verrà. Così come ci ricorda il titolo, Temporali, che naturalmente ci fa alzare gli occhi al cielo ed evoca al contempo questo qualcosa in divenire, uno scroscio imminente, forse violento, in parte catartico. Un passaggio, da una condizione in potenziale all’altra. È il pendolo che compie il suo percorso ed entra momentaneamente in una zona indefinita, prima di toccare l’altro argine del senso.
In effetti, esiste una tensione creativa nel fenomeno della sospensione, o meglio, in quello che esiste in quanto processo, atto in divenire. Così come nel temporale: una forza preannunciata dalle nuvole che incombono e dalla minaccia dell’avvenimento, che forse ci porterà verso una nuova apertura, una desiderata freschezza.
Così come avviene nel caso di un quadro raffigurante un paesaggio, anche la storia sembra immortalare gli eventi e fermarli, tali e quali, come scrive Pusterla, in “affreschi di esperienza collettiva”. Sono fatti che ci sono, e offrono una breve illusione di certezza.
La storia, appunto, che dà titolo all’ultima sezione della silloge, è come un oroboro: c’è qualcosa di circolare e dantesco quando si lancia l’individuo dentro alla vita e agli avvenimenti e la sua anima va “per l’eterno in giro nel giro di un volto”, nel suo “termine fisso”, “sul filo dei funamboli”, in bilico (p. 94); poi, anni dopo, lo si mette a confronto con i fatti del passato. Ecco che appare lo scarto tra l’immagine fissa, e quanto questa invita al movimento, a ciò che ancora pulsa dietro l’immagine, come una ferita che non si è totalmente chiusa.
Allo stesso modo, anche la storia chiede un dialogo, un’attualizzazione, quando appunto vi è l’attenzione del poeta che conduce all’ascolto delle voci ancora sommerse. E così troviamo, nella poesia Fino a un pallone gonfiato (p.86), una sovrapposizione temporale tra il “prima” (“Ed entrando nel vortice passiamo /a Çetin, alla sua morte per acqua”, p.86), e il “dopo” (“E adesso scivoliamo in fondo, fino / a quel pallone gonfiato di Freudenberg”, idem), con lo sconcerto del poeta nel dover zigzagare tra gli argini di un senso che spesso sfugge alla comprensione.
Poco oltre, nella breve poesia in prosa, struggente e intensa, Storia, il poeta rivisita un fatto storico e un luogo specifico, il canale della Muzza nei pressi dell’Adda, e lo smuove dal letargo nel quale erano sprofondati gli eventi e gli argini. Il poeta lancia l’appello per un nuovo sguardo, più fresco, dopo il “temporale”: “Vai nei terreni, corpo, voce. Ricordati di noi, esposti alla storia. Cosa vorranno dire ora una matita, ora una mano? In questo mondo che ruota e senza stelle la testa è piena di pioggia. Lì, dove finisce il canale, guarda. Dalle nostre labbra pende il nome della Storia” (p.93).
Anche la necessità di individuazione, che si ottiene attraverso l’ascolto e l’incontro con l’altro, con i numerosi altri (“ho pregato un riflesso in te, /forse era il mio”, p.37), trova nell’attualizzazone della storia, dei luoghi e degli affetti una sorta di compensazione empatica, come se Poletti ci sussurrasse, ecco, io mi completo in questo paesaggio, in questa vertigine storica, in questo sentimento che oggi tornano ad interrogarmi. È come se luoghi e personaggi prendessero vita nuovamente, uscissero dalla cornice del tempo e dialogassero con lui, con noi, che stiamo in silenzio ad osservare.
Quindi, in definitiva, è una forma d’amore.
Mi sembra che questo splendore sia tale perché intravisto nella bufera da chi porta in sé l’attenzione come porta una torcia. Con occhi infuocati.