Su “Bevendo il tè con i morti” di Chandra Livia Candiani (Interlinea, 2015)
A cura di Carlo Ragliani
Il titolo dell’opera sembrerebbe confezionare una convocazione rivolta al lettore consistente nell’invito di partecipare al rito del 茶の湯 (lett. cha no yu), cerimonia sociale e spirituale nipponica caratterizzata per l’altissima formalità e rispetto istituzionale dell’atto, della parola e del gesto.
Non seguendo una casualità, nel celebrare questo rito l’autrice parrebbe avvocare l’interlocutore alla meditazione e al silenzio necessari; ma se questo sembra (rectius: se questo ricorda) la nominazione del libro, emerge alla luce del contenuto del dettato un sentimento di più profonda accettazione della vita e dei vivi, e della loro finitezza, tosto che una sorta di glorificazione di un elemento macabro, o di una formula ricolma d’ambage.
Tentando un oracolo definitivo, e nella profonda convinzione di non assecondare compiacendosene una mortalità lugubre, sarebbe più corretto dire che la morte tra queste pagine semplicemente è realtà parallela, la cui istanza rimesta l’ordine consueto e domestico della quotidianità; ed è in questa direzione che l’autrice si intende versificando, non limitandosi cioè ad interpretare l’effettività dei deceduti come proiezione e riflesso di quella antropica.
Per questo, in Candiani, “i morti” si caratterizzano di una qualità quasi umana, una sorta di ricordo che si concentra come rappresentativo di ciò che è stato proprio degli spettri che popolano la pagina dell’autrice.
Ma è nella seconda sezione che il testo vede enucleare il proprio contenuto sostanziale; e se ne percepisce il centro nevralgico e pulsante perché, anche solo speculando attorno al titolo della sezione, il “riposo” non può che investire quell’estremo ed ultimo riposare dei defunti, e si intende “fiorito” perché circondato dalle ghirlande floreali che si concentrano come l’ultimo omaggio ad un deceduto.
E questo è anche il luogo in cui l’autrice produce quel che potrebbe essere un intimissimo manifesto nei meriti di ciò che sia la poesia, “lievi mani” che “sorreggono appena / il corpo appassito” e “la bellezza stanca / che non eccita e non riposa”, rispondendo al quesito sepolto nel componimento “Non esotici uccelli” (testo in cui sia il lemma che l’autrice questionano direttamente l’integrità della lettura e del lettore, ponendo la domanda: “Come risolvere l’enigma / della presenza della poesia / quando perfino il fruscio / dell’erba è delatore?”).
Così si entra nell’intimismo della nostra, e l’evocazione della poetessa prosegue, spingendosi fino all’incontro con la “madre eretica”; figura che si può intendere come universale che certamente passa per il fenomeno puramente fisico, ma che nel testo viene trattato con una certa lontananza rispettosa – come figura che ormai ha smarrito il connotato principale di vita, e sorride ad un animismo profondamente pregno di primitività.
In Candiani assistiamo ad una figura materna che scioglie i legami fra i mondi, eternando ogni stagione nel vuoto e nella devozione all’assenza; così si configura una genitrice che più completa sembra nella maternità, in quanto gravida del proprio negativo.
Ritornando infatti come grido, come goccia di sangue sul bianco delle lenzuola, come sofferenza che ribalta il paradigma educativo, precipitando persino in una inversione di ruoli dai risvolti dolorosissimi ed insinuandosi procedimento poeto-logico come realizzazione ed insegnamento, questa ritorna alla bocca così come le parole “pane” e “morte” in autenticità e, insieme, in finzione.
La riflessione, procedendo nel testo, accoglie l’esistenza del singolo unicamente nella sua proiezione più ampia di collettivo, intridendosi di una ragione che trova fondamento nell’unicità dell’esistenza umana.
In altri termini potremmo dedurre che se l’io esiste solo in rapporto all’altro, dunque è possibile assumere l’ambivalenza di questo enunciato, e perciò anche l’altro esiste solo se correlato ad un proprio simile onde specchiarvisi; nell’unica sorte che li compete, e nella sofferenza cosciente di essere costretti alla morte, al “morire” che “è adesso, / un momento qualunque, / questo momento.”.
Ma la compassione, così intesa poiché vicendevole, più si conferma nella coscienza della sua negazione ed ottiene valenza istitutiva nel testo quando l’autrice scrive “nessuno s’inchina / al mortale universo / dell’altro.”.
Nella chiamata alla sublimazione in un unicum della nostra si potrebbe intuire una necessaria collaborazione universale, per fondere l’amor proprio ad un ben più profondo affetto corrisposto, di matrice quasi ellenica.
Così l’opera si consegna nelle nostre mani imbevuta di una tenerezza riparatrice, e di una carezza struggente, che manifestano assieme l’affetto verso tutte le cose vive in quanto (segretamente) già custodiscono l’ombra della fine; e, contemporaneamente, verso tutte le cose morte, perché esse hanno dovuto trattenere nel loro essere tutto il dolore dell’essere (state) esistenti.
Perciò l’autrice si muove su sentieri di rado frequentati dalla contemporaneità della poesia, fino a incarnare un verso che in un unico gesto intende e si separa dalla mondanità, per sottoporla all’estrema tensione da cui consegue che al centro della poiesis si collochi un io taciuto: un attore poetico disperso tra i poli del lutto più sofferto, e dell’autenticità di un dire completamente spoglio di ogni panegirico innanzi alla realtà ineluttabile, travolgendo la monologante parola del lirismo.
© Fotografia di Salvatore Mayyarro
* * *
Non ai morti
si addice la tristezza
ma al bugiardo
perdurare dei vivi.
*
Il morto che ha paura di vivere
si alza di notte
rassetta la terra
cambia l’acqua ai fiori
della tomba
si siede a guardare le stelle
da lontano, sfugge
le rassicuranti chiacchiere
dei vissuti, ora come allora,
spiega l’anima stanca
come un tempo i vestiti
e a un tratto la terra
gli si rivela
piccola e minuziosa
nei solitari compiti
di fiorire e tramontare.
*
A Marina, Osip, Sergej, Aleksandr, Vladimir
Non esotici uccelli
ma abituali abitanti del volo
non solo fucilati
ma con metodica semplicità
assediati
dal pettegolezzo del Bene Comune.
Come risolvere l’enigma
della presenza della poesia
quando perfino il fruscio
dell’erba è delatore?
I morti seminano canti
che sbocciano in uccelli
che seminano canti.
*
Lievi le mani della poesia
intorno alla morte
lievi.
Sorreggono appena
il corpo appassito
la bellezza stanca
che non eccita e non riposa,
ma fatti lieve
entra nella delicata soglia
che non regge ma solleva
soffio candido
nemmeno una parola
un balbettio
di noci che rotolano
di gusci che si aprono
fiore di mandorlo
è il respiro,
che finisce.
*
Madre è parola estranea
che a te non si addice
meglio spina
ghiacciolo
fiamma
sale
meglio goccia
e lenzuolo
di neve
urlo notturno
di uccello ferito
pane spezzato
al buio
aria spalancata
fenditura della sera
peso senza peso
inumano
menta.
Merlo che vaga
senza nido
pellegrina
a luci spente
ago.
Non ti cerco
e mi so
non cercata
troppo prossime
al nulla
per esserci parenti.
* * *
Chandra Livia Candiani (Milano, 1952) è poeta, traduttrice di testi buddhisti e maestra di meditazione. Ha pubblicato le raccolte di poesie Io con vestito leggero (Campanotto, 2005), La nave di nebbia. Ninnananne per il mondo (La biblioteca di Vivarium, 2005), La porta (La biblioteca di Vivarium, 2006), Bevendo il tè con i morti (Viennepierre, 2007, ristampato nel 2015 da Interlinea), La bambina pugile ovvero la precisione dell’amore (Einaudi, 2014) e Fatti vivo (Einaudi, 2017). È presente nell’antologia Nuovi poeti italiani 6 curata da Giovanna Rosadini (Einaudi, 2012). Nel 2018 ha pubblicato Il silenzio è cosa viva. L’arte della meditazione (Einaudi). Con Salani ha pubblicato Visti dalla luna nel 2019.