Alessandro Baldacci, “Il dio di Norimberga” (Pequod, 2024)

A cura di Emanuele Canzaniello

Non ne sapevo nulla, come sempre. Ricordavo poco solo dal film di Herzog.

Ci sono arrivato poi grazie a questo insolito incunabolo di poesia narrativa-non narrativa e contemporanea, Il dio di Norimberga di Alessandro Baldacci, che emana in qualche modo da Kaspar Hauser.

Parlo del caso di Kaspar Hauser e di quello, precedente, del ragazzo dell’Aveyron. Sono stati i casi più discussi ed enigmatici di sopravvivenza allo stato selvaggio, nel cuore dell’Europa, e di segregazione totale mai accertata dalla nascita, di due giovani uomini di cui non abbiamo mai saputo l’origine, la nascita, il perché non parlassero, nulla o quasi si seppe di loro. Il ragazzo dell’Aveyron fu trovato nei primi anni dell’Ottocento, dopo vari avvistamenti e fughe, aveva una stazione eretta difficoltosa, non parlava nessuna lingua, aveva forse 12 anni, non mangiava che radici e frutta secca, non accettò altro cibo se non le patate, si masturbò sempre freneticamente in pubblico. L’altro apparve sulla piazza di Norimberga il 26 maggio 1828 e nello stesso anno, a dicembre, moriva Victor dell’Aveyron. Kaspar moriva pochi anni dopo, nel 1833, con una ferita nel petto, mai chiarita e forse autoinflitta. Forse sono stati pura semiosi del reale, del mistero, dell’illuministica furia di mistero e dell’essenziale, profondissimo terrore del selvaggio che è dentro l’Europa almeno da Ippocrate.

Sì ci sono i film di Truffaut e di Herzog, che impallidiscono un po’ davanti alla pura semiosfera del reale. La poesia, invece, pare emulare l’effetto della semiosfera, cioè dell’insieme pervasivo dei possibili significati di ogni segno o tratto del reale, restituendone il mistero intatto e in parte decifrato, per la gioia della nostra mente. Voglio cioè dire che leggendo e cercando di orientarsi dentro Il dio di Norimberga si ottiene quasi il medesimo senso di perturbante allucinazione che dà il reale, il suo enigmatico accumulo di significati possibili, virtualmente infiniti per ogni suo segno. Questa vertigine è restituita a noi dalla complessità della poesia, in modo specifico, peculiare, paradossalmente più nudo a volte che in altre arti, anche quelle direttamente visive, che al segno possono rispondere con un altro segno, aggirando l’astrazione supplementare del segno-linguaggio, dell’opera linguistica. Cos’è il dio di Norimberga? Impossibile rispondere, forse è questo segno allusione al segreto, alla semiosi infinita di ogni tratto del reale. Kaspar Hauser è questo e allo stesso tempo è il dio o l’emissario del dio, come pure si disse di lui, negli ultimi recessi dell’interpretazione. Cosa sono gli ufo più volte evocati nella musica straniante dei versi? Emissari del mistero, infanzia del mistero.

Il dio di Norimberga è anche questo, una scacchiera di composizioni brevi e numerate, legate alla rima ipnotica della canzone infantile, per un arazzo, un intreccio di figure misteriche dell’infanzia. Una ricostruzione dello spirito profondo dell’infanzia, infanzia europea e tedesca, e bavarese e intagliata nel legno di cavalli e soldati. Di Norimberga appunto, alta, medievale, protetta dal suo cavaliere Bamberger reiter di pietra, dalla vicina cattedrale di Bemberg, caro al nazismo.

In questa prima parte più decisamente ispirata alle atmosfere di Hauser, alla Baviera, alla piazza e ai boschi di Norimberga, e alla pazzia, elementi continuamente evocati, qualcosa nella costruzione del testo e nella sua eco cantilenante ricorda forse il film di Hans-Jürgen Syberberg, Hitler ein Film aus Deutschland (Hitler, un film dalla Germania (1977), per un modo analogo di assemblare vasti frammenti dell’immaginario, non soltanto tedesco, e montarli davanti ai nostri occhi e per le nostre orecchie, rievocarne la musica e l’incubo, incubo dell’infanzia, della barbarie, della profonda paura dell’Europa, che non individuiamo, che riemerge nelle figure dell’ufo e della baccante, che nel libro ritornano come spie di questo buio, da cui emergono, che invitano Kaspar, che uccidono Kaspar, che smembrano Kaspar, che se stesso cercava, solo sé stesso, tastandosi il petto nel buio, e trovò la piaga inferta, forse da sé stesso inferta, nel buio di quella profonda paura che non conosciamo. Da cui emerse l’Europa, e forse emersero le baccanti di Dioniso, e Nietzsche stesso, e gli ufo, dopo la guerra. Il libro è diviso in quattro parti, la prima porta il titolo del libro, ed è a sua volta ordinata in sette sezioni di strofe numerate con numeri romani, i titoli di queste sezioni o conti sono i seguenti: Ufo, Allo Spielplatz, Kore, Pollicino, Hansel, Melania, Goldrake. La seconda parte ha per titolo Il ballo delle baccanti, l’ultima parte, quella di Abbracciare le mosche, seguita da una coda ulteriore, Oppure.

 

Dischi volanti sotto le vesti

quando la nonna cantava lenta

la cantilena del dio dei topi

nelle taverne di Norimberga,

e lui restava dietro la porta

mentre gridavano a squarciagola

le sue baccanti, di nuovo in piazza,

per catturarlo come una mosca.

 

In ogni strofa tutto è convocato, tutte le figure-parola si ripetono, si confondono, si fanno vertigine. Norimberga è ovunque e tutto è a Norimberga. La sfida del testo è tessere quest’architettura, limpida e di fiaba, oscura e infantile, giocando con l’immaginario a una vicinanza inusuale e nuova, impastandosi di un corpo a corpo di colori nell’immaginario, fino a rendersi quasi indistinguibile da esso in quanto testo tra i testi che compongono l’immaginario che allo stesso tempo li precede tutti.

 

«Vedi qualcosa che non finisce

in questa piazza fatta di vuoto?»,

chiede nel sonno, persa la bocca

e poi la torta negli anni Ottanta,

mentre la notte fa girotondo

oppure tana nel nascondiglio,

e il cielo fugge da Vermicino

lasciando gli ufo dentro la gola.

 

Ipnotica mescolanza, ridda rinnovata degli stessi elementi attraverso il tempo, e come in un sabba, dentro le stesse figure, che nel vortice si avvertono come un’unica figura, forse quella del dio bambino, da Kaspar a Vermicino, dal XIX secolo alla Norimberga medievale, da quella nazista agli avvistamenti di dischi volanti nel pieno della lunga Guerra fredda, fino alla televisione degli anni Ottanta.

Forse l’indizio più esplicito dato dall’autore, non già per la decifrazione ma per il godimento razionale di questa mappatura dell’immaginario, è posto nelle ultime parole del libro, nella nota in prosa che lo chiude.

 

«Ed è proprio nel “ragazzo dell’Aveyron”, chiamato Victor, morto a Parigi lo stesso

anno in cui Norimberga registra l’arrivo di una sorta di ufo, che in conclusione mi pare sia possibile riconoscere non solo il “vero”, misterioso genitore di Kaspar Hauser, quanto soprattutto il testimone di uno dei più ostinati, drammatici (divini?) sforzi di contrapposizione alla violenza del mondo esterno».

 

«Hansel non esiste,

è soltanto il suono

dei dischi volanti

che girano in cielo»,

cantava allo specchio,

oppure nel forno,

Gretel con gli occhi

riempiti di mosche.

 

Caleidoscopio della fiaba, figuralità del dio bambino e del mondo-incubo.

 

Il dio di Norimberga

è un ufo sulla terra,

non sa come si vive

e sempre si nasconde

in casa, a Varsavia,

o dentro la testa

di Goldrake che ruota

negli occhi di Kaspar.