Alberto Bertoni, L’isola dei topi, Torino, Einaudi, 2021, 128 pp., € 12,00
Molte narrazioni auto-finzionali del nostro tempo giocano sull’ambiguità tra l’autore e il personaggio: anche se finge di presentarsi senza maschere, con la sua vita e il suo nome, il primo si racconta come un individuo di finzione e, in definitiva, rende impossibile per noi stabilire la verità su di lui secondo i principi della confessione. Per una poesia lirica, corteggiare le risorse della finzione è certamente più problematico: la voce dell’io che parla è un operatore testuale più forte del narratore e rimanda continuamente all’autore in carne e ossa. Ora: la poesia di Alberto Bertoni è da sempre improntata all’autoritratto, ma a differenza dei maestri da cui affina i suoi modelli (Giovanni Giudici) sa che non può più crederci. Sa che gli autoritratti del nostro tempo sono quelli effimeri e dispersi nella combinazione di immagini e testi che osserviamo sui profili dei social media: non sono meno artificiali, ma certo più efficaci della semplice scrittura in versi. A un primo sguardo, con questo ultimo libro Bertoni sembra uscire da questa impasse proponendo una soluzione collaudata da altre poetiche: l’auto-denigrazione attraverso una degradazione animalesca.
Nel volume pubblicato dalla celebre collana di poesia di Einaudi, il topo è innanzitutto specchio del poeta: «topo color cenere che sono» (Nello specchio). Un verso come questo ricorda il montaliano «il colore / che resiste è del topo» (Barche sulla Marna). Ma in generale è piuttosto il secondo Montale a fornire un palcoscenico dove inserire queste figure. Poiché «non può nascere l’aquila / dal topo» (Satura), la posa del poeta assomiglia a quella assunta da Montale in Sotto la pergola (Quaderno di quattro anni): l’osservatore misurava il traffico di topolini che scorrazzavano da un palo all’altro sulla sua testa e non riusciva a discernere, in un difetto della memoria, il tempo certo (o lo stesso accadimento) di quella visione. Anche Bertoni predilige situazioni che, da un quotidiano spogliato ormai di ogni epifania, confinano con l’allucinazione. Ne L’isola dei topi «[l]a verità» non si nasconde nemmeno «nei rosicchiamenti / delle tarme e dei topi» (La verità, ancora dal Quaderno).
L’opera precedente di Bertoni ci aveva abituato a una danza, più giocosa che rovinosa, con tutte le ossessioni generate dai «microeventi nel paese minimo» (Homo sapiens): i viaggi, la poesia stessa, la famiglia, il rapporto tra le generazioni, gli amici, le situazioni conviviali e ludiche (e animali più nobili e maestosi come i cavalli). Certo, un’ombra s’era allungata, ancora in senso montaliano, sulla facoltà della memoria, senza la quale nessuna identità lirica può funzionare: questa era la lezione di Ricordi di Alzheimer (2008, ed. riveduta 2016), dove il racconto della malattia del padre diventava una minaccia rivolta contro lo stesso io, al presente e nell’avvenire, ma che era ancora disinnescabile per mezzo di una dolorosa retorica del distacco, che apriva non solo a sentimenti intimi e melanconici, ma anche a scarichi umoristici d’alleggerimento. Quel libro (il suo più importante assieme a questo) segna un discrimine e getta in Bertoni il germe di una poetica scavata ora al negativo, che sostituisce al disequilibro interiore un completo sbigottimento. L’isola dei topi non è un libro lieve: il roditore dall’inutile esistenza è l’allegoria di una nuova minaccia, figura del rimosso con cui tutti i contenuti delicati dei trascorsi poetici di Bertoni riemergono più temerari. L’idillio si fa decomposizione cadaverica quando il poeta immagina il proprio seppellimento con cui andrà a nutrire il terreno di un albero: non legge nella propria fine una palingenesi o rinascita, ma la morte e la dimenticanza (Metamorfosi). La poesia Per un’amica vegana s’annuncia con un titolo leggero e ironico solo per terminare con un’immagine di necrofagia. La passeggiata combina infanzia e violenza: «spietati bimbi / con facce da nazisti / pescano in un amen due pesci / e gli spaccano la testa / con un sasso felici di avere / conquistato per tutta la loro / tribù in attesa / un’eucaristica cena».
Per infondere forza a questa indagine del terrigeno e dell’oscuro Bertoni avrebbe potuto spingere sul pedale della letteratura alta. D’altro canto, sono numerose le citazioni dei classici novecenteschi (oltre Montale, si va da Belgrado di Sereni in una poesia dedicata al Danubio a Seamus Heaney con la versione bertoniana di Digging: A scavar patate), includendo tra questi anche Bob Dylan (sul rapporto tra poesia novecentesca e cantautorato si veda, dal lato saggistico, il suo Poesia italiana dal Novecento a oggi). Questo rafforzamento avrebbe però fatto compiere una virata tragica. A Bertoni non interessa il valore sublimante dell’autorità, piuttosto il suo statuto di omaggio, di occasione per la scrittura, e pertanto tutti questi riferimenti restano visibili, ma non esplicitati. Con coerenza rispetto la propria passata produzione, Bertoni s’impegna in un virtuosismo della semplicità lirica, la cui lingua “minore”, calata nel dettato quotidiano, rappresenta da sempre la sua modulazione più autentica. Come si evince nell’ultima sezione, l’immagine del roditore diventa un referente mobile, quasi un mantra linguistico, che l’autore si diverte a mettere in dialogo con una serie di situazioni paradossali o inconcludenti. Bastino due poesie parigine: una sirena d’allarme in un metro fa sospettare dei topolini («Me lo fanno pensare / i suoi baffi a spirale, / e il nome comune, la solitudine, la rabbia / di un dio qualunque / fra lo stomaco e la faccia»); il contrasto tra banlieue e centro storico rende il poeta e l’amico «[p]uri ciarpami / noi stessi nei nostri / involucri di corpi / seduti scomposti […] nanosecondi di topi benestanti / o quasi».
In sostanza, il topo è un messaggio e un ruolo. Significa che si può fare poesia su tutto. Segnala il potere dell’immaginazione che, ne L’isola dei topi, pare vorticare ed eccitarsi maggiormente proprio mentre il poeta ne riduce il volume al minimo. E proprio adottando la postura rasoterra dell’animale parassita, veicolo di malattia, Bertoni acquista un punto di vista privilegiato: si pone all’ascolto degli spazi minuscoli della vita, dei cantinati del rimosso (come illustra bene la bella prosa finale, Canalchiaro), di una natura inconsapevole e incolpevole (vari i riferimenti alla pandemia) e riposiziona anche noi lettori all’altezza degli occhi abituati al buio e ai sensi in allerta del topo.
Guido Mattia Gallerani