Luciano Cecchinel, “Le voci di Bardiaga” (Il ponte del sale, 2008)

Nota di Carlo Ragliani

La capacità creativa del verso di Cecchinel rappresenta un acme poetico nella contemporaneità, in primo per la pacata delicatezza con cui l’immagine viene confezionata; secondariamente, perché il testo avvoca l’unica competenza del poeta di nominare e rinominare il reale, aprendosi un varco anche dove non sia possibile per colmare e riempire l’assenza di giustificazioni degli avvenimenti.

Il dettato del nostro, soverchiante e riflessivo al contempo per la portata di immagini che deduce nel canto senza mai ricadere nel mero didascalismo, dispone una sorta di stretta cortina di rappresentazioni; producendo una catena di poesie dove le singole parti si uniscono in una maglia strettissima di coerenza ed inscindibilità dagli eventi tragici da cui il canto emerge.

È esattamente questo a conferire spessore all’opera, al di là dell’origine fattuale di quanto è iscritto al testo: l’approccio rigoroso e severo della versificazione, il naturale equilibrio dello scritto, e la fisiologica posatezza ritmica dell’opera realizzano la pienezza materica dell’apparato poetico dell’autore, la cui cifra stilistica perimetra i confini certi della res a cui la parola aderisce sfociando nell’idillio.

E se possiamo parlare di idillio, di incanto e di serenità figurativa (cosa in cui il nostro è completamente magistrale, vista la cura descrittiva affine all’ecfrastica) non si può tralasciare l’elemento macabro del ben più classico “et in arcadia ego”, ma è cosa di cui si tratterà in seguito.

Importante è notare in primo la posa ieratica del dettato poetico: il verso del trevigiano, districandosi in una massa apparentemente impenetrabile di primo acchito ma comprensibile nel suo nucleo più materiale, sembra attraversare una sostanziale impalpabilità; come se fra lemma e lettore si instaurasse all’inverso quella non-distanza fra l’autore e la propria linea.

Ad impreziosire questo libro (o meglio: ciò che lo rende compiuto e risolto sul versante stilistico) è l’eleganza dell’approccio fondamentalmente metrico dell’opera.

Invero, la posa elegiaca si consegna come certa eredità di una erudizione nella materia, classicamente intesa, della poesia, e fortifica la distensione poeto-logica del concetto nella struttura più elegante che questa chiama a sé stessa, in termini sia sostanziali che formali.

Perciò lo schema complessivo adottato, corrispondente al poemetto novecentesco, si dota di un apparato di versi agili e dal ritmo cantilenante (caratteristica principale che connota l’andamento giambico).

Nel particolare, si ravvisa una tendenza del ritmo anisosillabica (per cui la misura dei distici oscilla liberamente, senza seguire un modello stabile) di settenari che sfociano e si dilatano rispettivamente in novenari e ottonari, senza tuttavia ridursi sotto la soglia metrica del quinario.

L’immagine di cui è artefice il poeta – al di là del senso etimologico a cui questa definizione potrebbe inesorabilmente condurre, e considerando il procedere tutt’altro che retorico del testo – conferisce un attante della narrazione a cui è demandata l’inquisizione della materia nel suo disporsi fattuale, interrogandone la struttura di fondo.

Ma non sulla sola forma conviene soffermare l’attenzione, perché l’opera emerge (letteralmente) dal fondo: infatti, è dal sugello conclusivo ed autografo che il testo dischiude tutta la propria portata significativa.

Alla luce della postfazione (intitolata, come se fosse una confessione, od una ammissione di colpevolezza, “Ad autogiustificazione”) risulta chiaro che è l’autore medesimo a conferire una chiave, assieme alle note al testo, decisiva per la comprensione dell’opera, rifuggendo così e la tentazione della propria parola di rifugiarsi nell’iperuranio – presunto – tipico del codice ermetico, ed il contestuale pericolo di non essere adesivo alla materialità degli eventi.

Ma è anzi la poesia a partire dai fatti in Cecchinel, a riempire la lontananza tra il verso ed accadimento da cui questa origina; deinde il poeta, trafiggendo con una indagine verticale l’orizzonte dei fatti, consegna e ribalta l’impalcatura dell’opera, realizzando una narrazione che si impernia al centro esatto sia dell’accadimento, che della voce narrante.

Così i testi si congiungono l’uno all’altro, coerentemente con la sedimentazione delle vicende, contestualizzati e circoscritti; il che supera l’immedesimazione ed il mistero irrisolvibile di cui abbisogna lo statuto ermetico per essere, se non compreso, almeno interpretato – ed esuma il significato più profondo ed inconfessato del testo, facendo sì che ogni elaborato fuoriesca dalla corolla oscurata dell’imperscrutabilità, per entrare in un più struggente intimismo.

La materia di cui il testo si occupa, a seguito del lume gettato dell’auto-esegesi, si incunea negli eventi concernenti la Resistenza, concentrandosi sopra la tematica lugubre della scoperta di spoglie mortali ed ossa rinvenute in una grotta della montagna; più precisamente, l’evento in questione riguarda il ritrovamento causale di resti umani in una caverna delle Prealpi Trevigiane.

Indicendo gli orrori della guerra come monito, soprattutto nella ricaduta locale dai rivolti tragici, la poesia e l’autore interrogano gli avvenimenti (rielaborandone i modi, rivalutandoli e rivivendoli ex post) che hanno sfregiato le terre del poeta: così che la macchia mortale contamina il senso bucolico della montagna, costringendo la mente dell’autore ad esercitare speculazione attorno alla morte di quelle persone, rifugiate nella spelonca, ed al loro tragico destino.

L’opera del nostro, concludendo, non solo manifestando il proprio cordiale attaccamento ai luoghi dell’alto trevigiano senza ricadere in un vernacolare campanilismo; ma anzi legandosi ancora, ed in modo indissolubile, al disastro che ha sfigurato anche la coscienza individuale e collettiva si consegna come pagina amara, attraversata da una assorta drammaticità, e pervasa da una profonda (almeno quanto intima) pietà per quelle morti.

 

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Esangue immobile carezza,
sguardo lunare,
colmavi il flusso
interminabile dei prati
e con labbra di fragola selvosa
alitava il vento per lumeggianti
fessure di fienili
su legno e sogni
prima che ammutito terrore
vorticasse da cava
buia disseminazione
su all’alba timida dei boschi.

 

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Balbettante penombra
per una volta ancora
baluginò il volto del fuoco:
forse chi è audace
ha visto luce fino a non vedere
o solo ha uno sguardo breve.

 

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Ora più non si impreca
se lasciata la traccia
febbrile il cane raspa
nell’ispido di grasse ortiche
né si riporta, inadescate prede,
ossa corrose

 

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Sulla montagna di Bardiaga
sotto le crode di Bardiaga
c’è una spelonca di terrore:
là su una coltre
di buio e pietre
giacciono sventurati
rosa da denti d’acqua.

E là lasciate
le loro ossa se anche nessuno
composte le chiamerà a nuova vita.
Essi seppero che non come altri
dovevano morire
e assorti in gola e fuori
gridarono amore
alle resine e alle rose
e alle vette celesti degli abeti.

 

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E c’è chi vide
contorte sagome di cenere
come affranti mendichi nella nebbia
brancolare per segni in lunghi intrichi,
reggersi alle ossee betulle,
poi sparire in vorticoso frantume,
anime del rimpianto,
dell’ira, del dolore.

 

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Luciano Cecchinel (1947) è nato a Revine-Lago (TV). Già insegnante di materie letterarie, ha pubblicato articoli e studi sulla cultura popolare e le raccolte di poesia Al tràgol jért (I.S.Co. 1988 – Scheiwiller 1999, con postfazione di Andrea Zanzotto), Lungo la traccia (Einaudi 2005), Perché ancora (Istituto per la Storia della Resistenza di Vittorio Veneto 2005, con note di Martin Rueff e Claude Mouchard), Le voci di Bardiaga (Il Ponte del Sale 2008), Sanjut de stran (Marsilio 2012, con prefazione di Cesare Segre), In silenzioso affiorare (Tipoteca Italiana Fondazione 2015, con prefazione di Silvio Ramat e 6 acquerelli di Danila Casagrande), Da un tempo di profumi e gelo (LietoColle 2016, con postfazione di Rolando Damiani) e Da sponda a sponda (Arcipelago Itaca, 2019). Del 2018 presso Marcos y Marcos la sua prima prova narrativa dal titolo La parabola degli eterni paesani.

 

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