La Puglia custodisce un tesoro di voci vivissime, poeti adornati da uliveti e maree folgorate dalla calce stesa sulla lucente bianchezza del paesaggio.
Giovanni Laera, poeta, studioso di linguistica, folklore e letteratura dialettale è, difatti, di questo territorio un testimone esemplare da designare per continuare a tracciare il sapere tradizionale e popolare, che trae le sue origini dalla cultura magno-greca.
Nel suo ultimo lavoro, Maritmie, edito per Marco Saya Editore, nella collana Sottotraccia, a cura di Antonio Bux, la poesia in lingua si mescola a quella dialettale, volge a un dettato variegato di voci che, seppure teso al presente, è arreso alla fascinazione del ritorno al passato.
Sarà facile ravvisare nei versi di Laera lo stesso afflato riscontrato nelle testimonianze popolari determinanti la formazione e lo sviluppo di un linguaggio appartenuto a molte civiltà, tra sopravvivenze pagane e culti cristiani. Una poetica dialettale espressa in relazione al bisogno di autenticità, un codice della sopravvivenza al quale restare aggrappati per non soccombere, ulteriormente, alla volontà di quella società stereotipata che vorrebbe una scena linguistica omologante.
A tal proposito, nel cuore di questo volume, come fosse il motore pulsante di una macchina antica, è stata posta una sessione di poesie dialettali, fornite di traduzione, che fa capolino alle memorie dell’autore, Giovanni bambino, emerso dai ricordi dell’infanzia vissuta nell’entroterra apulo-barese. A seguire, un apparato di note al margine semplifica la comprensione di termini vernacolari apprezzabili, isolati come fiori bellissimi e rari, in alcune delle poesie prodotte in lingua italiana.
Il ritmo dei versi, rifratto sul foglio, in costante ed equilibrata melodia di quartine endecasillabe, crea vertigini d’immagini accordate, in cadenze cicliche e frequenti reiterazioni di parole, alla ricercatezza ossessiva di ogni piccola unità di suono restituita al lettore con il timbro di una vena verbale diretta e viscerale.
I luoghi citati – Noci, Monopoli, Bari, Polignano – e gli aneddoti che li attraversano, eleggono una toponomastica dei sentimenti per senso di appartenenza, fari di luce che conducono al sostanziale desiderio di approdo alle radici, lungo la rotta tracciata da chi ci ha preceduto.
Massimo D’Arcangelo
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9.
Vedove stanno sulla strada al viola
come tu al sale e ai fichi d’india alterni
che spina a spina fanno a sangue il sole
e alzano pale ai traffici del vento.
La Puglia è questa bocca madornale
che un lamento di mare sparola. —
Nella violenta gioia di un abbraccio
ho voglia di baciarti e farti sola.
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5.
La banda blu di Facebook mi ricorda
un orizzonte triste, a Polignano:
vedevo la tua mano affondare
nel tasto, il solo, che spegneva il sole.
Tu che vacilli in sangue le parole
e in archi spaventosi ogni mi piace
avvolgi, aperto amore, la mia lingua
dentro un’onda violacea – Dio, i tuoi baci.
*
Lamento di madre
Uccello senza ali, come sua madre.
Povero figlio mio, povero nibbio,
io ti lasciai i gigli imputriditi
le bellevedove andate e andai dove
parlano coi lamenti gli alberi strani,
figlio che tentò il cielo, con un padre
che ti mise un lucchetto al telefono
e tu, lontano dai compagni, solo
odoravi questi fiori, fiore mio,
e primavera ti schiamava in petto;
fiorone viola-notte, metti le frasche
dei gigli morti col sorriso negli occhi
di Giovanni bambino, erba del vento,
papavero di fango, tordo amaro,
che ti dicevano di prendere il volo
di trovarti un lavoro, una ragazza
e mo sei solo una poesia figliata
in un fiato che aprile sta dimenticando.
Latuérne de mamme
Acidde senza sscidde, accome a’ mamme.
Póvere figghie mi, póvere nigghie,
ji te lassibbe i giglie affetessciute,
i pezzecuérne sciute e sscibbe ajjovve
pàrlene ch’i latuérne l’arve stranie,
figghie ca attandì u cile, che n’attene
ca te mettì u catenazze o’ téléfene
e tu, lunduène d’e’ cumbuagne, sule
addurive sti fiure, fiore mi,
e ’a premavere te sckameve mbitte;
jure de tutt’i notte, mitte i frasche
d’i giglie morte ch’u rise ind’a ll’ócchiere
de Giuanne meninne, erve d’u vinde,
pupedda mè de lote, turde amere,
ca te descèvene de pigghiè u vule,
d’acchiarte na fatiche, na uagnedde
e mu si’ sckitte na poesì fegghiète
jind’a nnu fiète ca aprile stè sscerre.
*
14.
Sotto la nuca ho un arco di scadenza
e l’ansia di Bodini nel fiato –
sul naso sta spuntando un altro orecchio:
mi sento vecchio, amore, e sconfinato.
I muri a secco fanno le cesure
di un corpicino spento tra le stelle.
Un bacio, un bacio solo e sono solo
la tua saliva salsa, pelle pelle.
*
16.
Libri di ndrame, uccelli, nudi – senti
rantolare la sillaba più atroce
e i semi sparsi sfarsi tra le dita:
non dicere ille secrita a bboce.
Non dicere, non nominare i fiori
neri che il corpo assolve, non firmare
col sangue mio il tuo nome, ma da’ al mare
una linea di zeri e falla sciogliere.
*
Il suo dolce sentiero tra pareti
alte di carne mi occupa e ti occùpa
ombra di un’ombra in cui ti adombri e mieti
denti di lupa
denti di luna stretti stretti al nero
di oceani che risalgono gli scogli
attratti da una melodia che spero
presto ti spogli
e annunci il terzo cielo tra i pulcini
ardenti, e morsichi a sangue l’aurora
al tempo di un sorriso che indovini
Venere ancora.
*
Ahi differita madre nostra
sparita, fatta salma, letto
sfiore per sempre, santa degli scanti
nelle ossa, solo perfetto dolore
che non è in pianti e non è in morsi
e non è azzurro il mio peccato, ahi tanto
tanto desiderato giorno bianco
e oro come le Merit, madre merenda
insetta musulmana tra le uccise piante
vieni all’avvampo sciroccale, a una canzone
dove siamo non vivi finalmente
ultima luce in cui tu sei per dirti
sorridimi sorridimi: c’è il mare
*
Se tu fossi nel mare e riguardassi
la spiaggia avara dietro i frangiflutti
di Mola, avresti agli occhi viola in scorta
dune di posidonia morta e strame.
Eppure, stesa in quelle oscene lame
di alghe e catrame, una barca azzurra
parla come l’aurora: –
* * *
Giovanni Laera (1980), è un poeta originario di Noci. Dottore di ricerca in Linguistica italiana presso l’Università degli Studi di Torino, è autore di diversi libri e articoli su lessico, onomastica e folklore nei dialetti apulo-baresi. È caporedattore di Avamposto – rivista di poesia e collabora con Incroci – semestrale di letteratura e altre scritture. Ha pubblicato Fiore che ssembe (Pietre Vive, 2019), la sua prima opera poetica, con segnalazione di merito al Premio Bologna in Lettere 2020. Nel 2022 figura tra i poeti delle antologie I cieli della preistoria (Marco Saya) e Sotto traccia. Per un umanesimo della terra (Latitudine 41). Suoi inediti sono apparsi su riviste, blog e quotidiani.
Massimo D’Arcangelo (Martina Franca, 1982), vive nella Riserva Naturale dell’Alto Merse, in Toscana. Redattore di Atelier Poesia. Ha pubblicato Intatto. Ecopoesia/ Intact. Ecopoetry (La Vita Felice, 2017), con Anne Elvey e Helen Moore; Voce del verso animale. Poesie antispeciste per ragazze e ragazzi (Pietre Vive, 2023), con Teodora Mastrototaro. Ha curato la prima edizione italiana in volume del racconto Stickeen. Storia di un cane, di John Muir (La Vita Felice, 2022). Suoi lavori sono reperibili online e su riviste nazionali e internazionali a tema ecologico.