Victor Attilio Campagna
Inediti
Traccia prima in tre stanze
I
Fu qui che pensai per la prima volta al suicidio.
Mi venne in mente come una risalita smisurata
mentre me ne stavo a lavare i piatti, in silenzio,
guardando una cosa su Netflix e cercando
un qualche cenno, un senso nell’acqua che si rovesciava;
ci pensavo intensamente dietro i miei occhi
avvampati: le mie mani spietate avrebbero potuto,
avevo tutti i mezzi, coltelli, persino dei cucchiai,
a voler essere masochisti. L’unica cosa a fermarmi
era una strana esigenza che mi partiva da sopra, tra
un bulbo e l’altro dei miei occhi, mi si paralizzava
la mano, che invece avrebbe voluto, avrebbe potuto,
e in questo senso di fermo-immagine, non feci nulla,
però pensarci, pensare alle conseguenze del gesto,
ossia il nulla, il vuoto, mi incuriosiva alquanto.
Può morire un dio? Mi chiedevo, con l’acqua
che continuava a scorrere e io fermo col
coltello Ikea in mano ci pensavo e mi dicevo
che di fondo un giorno lo dovrò pur sempre sapere.
Alla fine tutti avremo il nostro deserto.
II
Il problema mio è che questo deserto già lo sento,
già lo percepisco, lo vedo, lo intravedo, meglio.
Io che cammino e vago per la casa,
in cerca di una scusa per sentirmi allegro,
osservo i libri e sprigiono in una stanza
nascosta un desiderio intimo di pianto.
Se va male, troppo male, tendo a masturbarmi,
guardo un porno di scarsa qualità, cerco di capire
la felicità altrui nell’atto fisico e di riprodurla in me,
ma l’effetto è contrario. Già vado da una dottoressa,
mi piace come parla, quel che dice, non sa precisamente
chi sono, non glie lo dissi ancora, ma parlare con lei mi rilassa.
Eppure quando apro la porta di casa,
sarà per le differenze, sarà per i rumori,
forse per le imprecisioni dei miei passi,
o per l’ipotesi di deserto che mi accompagna,
che rimango così, in mezzo alla stanza e rido,
rido di mezzo a una sorta di isterica danza,
che mi si arranca sulle ginocchia, sulle anche,
si arrampica alla mia fronte e mi scuote
in una palestra di sensi negati, di volti distrutti,
di deserti impressi dentro me.
III
Di Pan leggiamo queste parole.
Le scrisse sul muro di casa prima di impiccarsi.
Seguiva lento un destino suo,
quello della morte. Ma non vogliamo che rimanga
di lui solo la confessione di una sorta di abisso
che gli magnetizzava i pensieri a mo’ di risonanza.
No.
Crediamo sia necessario dirne in queste pagine la vita,
nella sua più incerta ragione.
Fotografia di proprietà dell’autore.