Silvano Trevisani, “Il poeta scomparso e altre storie” (Puntoacapo Editrice, 2024)

A cura di Mauro Ferrari

La raccolta di Silvano Trevisani si impone all’attenzione critica per almeno due motivi: da un lato mantiene viva la memoria di un poeta autentico come fu il tarantino Pasquale Pinto, “uomo città” (p. 50), acclamato da grandi nomi (e definito forse riduttivamente “poeta-operaio”) ma caduto poi in un ingiusto oblio – e di cui Trevisani fu amico e sodale – ma dall’altro, innegabilmente, mostra interessanti caratteristiche espressive e spunti tematici di attualità.

Vero, la poesia, che secondo il mito nasce dall’azione della memoria, ha il compito di scrivere “ciò che resta”, nella lapidaria frase di Hölderlin: ciò che resiste al tempo più del bronzo, ma anche ciò che resta da dire dopo: quando la memoria si è spenta, quando tutto è stato detto, quando ciò che va ancora detto pesa come un macigno.

Trevisani rincorre l’ombra dell’amico “scomparso alla città d’acciaio”, in cui l’acciaio è il riferimento concreto all’ILVA di Taranto, ma rimanda anche alla durezza e freddezza morale di una certa idea di modernità; la sua è una ricerca incessante delle tracce, sull’onda del ricordo: nella propria memoria, con vivide pennellate poetiche che sanno di tributo all’uomo oltre che al poeta; nelle figure e nei luoghi che egli frequentò; soprattutto (ed è ciò che vale di più), Trevisani riporta a galla l’umanità di Pinto, i problemi lavorativi e sociali che visse.

Perché la poesia, piaccia o non piaccia alle anime belle, è sempre politica, anche solo implicitamente: tiene a galla i valori umani, scrive di una comunità, rifugge (no, anzi: deve o dovrebbe) dalle esternazioni sentimentali di un Io malato di protagonismo, che meno ha da dire e più parla e scrive.

Ciò che non resta. In questi versi di minimale scarto dal parlato (il che vale soprattutto per la prima sezione, quella portante), che volutamente non esibiscono alcuna concessione alla melopea e alla regolarità tradizionale, Trevisani mostra come i problemi che cita e che travalicano l’aspetto economico e politico non siano stati risolti e quindi non vadano dimenticati, così come la figura di Pinto, che ne ha parlato e scritto: poesia appunto come memoria, al lavoro per mantenerci vivi e (un poco più) sani.

Anche la seconda sezione, che non è un mero addendum o un riempitivo, concorre alla riuscita della raccolta: le voci emarginate delle figure che tutti noi vediamo nei contesti metropolitani vanno a creare un coro ideale che il destino comune affratella a Pinto, ma in fondo a tutti noi perché noi “siamo parte dell’umanità”; anche qui, sono voci e figure da non dimenticare e che ci ricordano, nelle loro pagine diaristiche e nelle loro esternazioni, di cosa sia fatta la realtà in cui siamo immersi.

Qui i versi appaiono più levigati, se non cesellati, ma mantengono una forza asseverativa dirompente quanto più scabri e giornalistici nel dettato.

 

“Avevo un marito se non sbaglio
ora ho la morte che mi veglia”

 

In questi versi, ad esempio, l’autore esibisce una quasi-rima di sconvolgente stridore, che basta a dare una immagine indimenticabile di una concretissima sofferenza, un male di vivere che non è riportabile ad alcun destino astratto. Anche sottovoce, nel pianissimo di chi parla da oltre il muro della nostra coscienza, queste poesie ci aiutano a ricordare.

 

*        *        *

 

Un messaggio virale
Ora un messaggio anonimo mi avvisa
che c’era l’ombra
delle tue parole su un ampio fazzoletto di destino
riquadrato nel giardino della chiesa
o su un’improvvisata antologia.
Dove investivi il tempo, quella casa ti chiama da lontano. Ti accusa,
perdona la franchezza, della fine del sogno
della fine c’era quel po’
di Marilena inventa la sua ombra
pure adesso, per smentirlo.
Che tu amavi persino la sua ripugnanza verso i soli
sepolti sotto l’erba abbrumata.
Ne baciavi le stigme di pioggia
se largheggiava di amori fantastici,
che tu stringevi nelle tue utopie.
Corro a verificare le tue impronte
e un rigo di sale
e uno di sentenza, vivo il sapore delle notti albine.
Con dentro troppa luna
che ti si vede il cuore in trasparenza.
Mentre i gatti ricercano l’odore
delle tue gambe inermi nel bagnato.

 

*

 

Passi di te nella grotta in riva al mare

Ora mi tiene questo infausto sonno
inebriatomi del succo delle tue parole
mentre cercavo nel girone di Mar Piccolo
un’uscita da cui tu apparivi. Lo avresti stritolato con le mani
il tarlo che rodeva il tuo silenzio
terreo di segreti. Inconfessabili
o forse già segnati. Nell’altro
della grotta, al primo seno di sponda
mi affaccio con timore di…
non riveder le stelle. E tu ridi di pianto
nel sentirmelo pensare.
Ti nascondi per accrescere
il mio senso di colpa, sono appassiti, ma vivi
ancora i tuoi versi nel cassetto
della scrivania.
Li serbavano per un giorno più vicino
all’eternità. Cosa pensavi che ne avrebbe scritto
Caproni senza rimanere in vita?
E tutti gli altri se ne sono andati
e io non so dove cercarli
perché credano nel tuo silenzio.
Lui ti disse che tu un giorno… ma che importa
non c’è più spazio nelle antologie.

In fabbrica
Adesso che ci penso, le siviere
avranno vomitato tante storie
di fuoco fuso, di dolore impregnato di materia
ma parole tu ne hai versato, qualcuno
che ricordi il suo inizio, la tua fine anni fa
sarà rimasto. Ma dove bussi cancelli imponderabili di vuoto
parcheggi dove mestano
prestatori d’opera? Chi siete voi metalmeccanici
che riscuotete la memoria
avendone perfida malia, per riscattare un oggi
da una morte che vi guarda dalla busta paga?
C’è qualcuno che ricordi
Pasquale, un operaio che contava le ore a rime alterne?

 

*

 

Incontro con Marilena

Marilena tu
eri giovane allora, quando un amore
insidiava bellezze irraggiungibili.
Fatte di seni imbrattati di lune
e di sguardi che fantasticavano il tuo corpo, spalmandovi poesia.
Almeno lo ricordi, tu,
prendere appunti col lapis
sul giornale del mattino?
E continuare il racconto di una città perduta
nella sua
anima perduta
nella sua città?
Se almeno il rimorso descrivesse
dov’è, sulla tua bocca, che lo perdemmo
spingendolo verso il mare, saprei
dove cercarlo ancora. Per additarlo a tutti i poeti che verranno.

 

 

Le poesie sono tratte da “Il poeta scomparso e altre storie”, Edizioni Puntoacapo

 

 

 

Silvano Trevisani (1955), giornalista professionista, per quasi trent’anni responsabile dei servizi culturali del “Corriere del giorno di Puglia e Lucania”, è redattore capo di nuovodialogo.com, responsabile del bimestrale di poesia “Il sarto di Ulm”, e del periodico di narrativa “Il sogno di Orez”, collabora con giornali e riviste. Ha pubblicato oltre 50 volumi di storia, economia, letteratura, poesia, arte (ha coideato le celebrazioni ufficiali del ventennale di De Chirico, “De Chirico e la metafisica del Mediterraneo”, catalogo Rizzoli, 1998). È presente in molte antologie, riviste e siti web. Tra gli ultimi lavori Alda Merini tarantina (Macabor 2019), il thriller satirico Cosa sarei senza di me!? (Radici Future, 2013). Ha curato, tra l’altro, l’antologia La guerra che è in noti (Macabor 2023) e varie monografie, tra le ultime quelle dedicate a Ennio Cavalli e Isabella Leardini (Secolo donna, 2023). Per la poesia ha pubblicato: Poesie (Ed. Amadeus, 1995), L’altra vita delle parole, (Nemapress, 2012), Le parole finiranno, non l’amore (Manni, 2020), Il poeta scomparso e altre storie (Puntoacapo, 2024).