Rimbaud Vuelve a Casa #5: Jacques Prevel, «J’ai tout jeté dans l’extase et dans la terreur»

Traduzioni e nota a cura di Giovanni di Benedetto

 

Anni dopo, di fronte al tribunale militare che mi avrebbe chiesto le ragioni della mia diserzione, avrei risposto sillabando, il più lentamente possibile, il nome di Roberto Bolaño. Avrei raccontato di come, dopo aver letto I detective selvaggi, avevo messo da parte i pochi risparmi e comprato un biglietto di sola andata per Parigi, dell’obiettivo di praticare la vita in maniera filologicamente corretta rispetto alle traiettorie impazzite dei poeti realvisceralisti, di come avrei letto tutto ciò che Bolaño aveva scritto, imparare dalla A alla Z l’abbecedario realvisceralista. Al giudice, avrei citato un capitolo de I dispiaceri del vero poliziotto in cui Rosa Amalfitano ricorda le letture serali della madre, Edith Lieberman: «Quando tramontava il sole sua madre si sedeva nella poltrona e si metteva a leggere poesie francesi. Non ricordava il titolo dei libri ma i nomi dei poeti».
Gilberte H. Dallas, Roger Milliot, Ilarie Voronca e Gérald Neveu. Nomi che Edith Lieberman rievoca e che appartengono all’antologia Poètes maudits d’aujourd’hui. 1946-1970, curata da Pierre Seghers, un «gruppetto di falliti e suicidi, di alcolizzati e malati di mente». Non appena terminai il capitolo, andai su internet per verificare se il libro citato da Bolaño esistesse davvero o se fosse una sua invenzione. Trovai la sua traccia nella pagina di una libreria di libri usati nel Quartiere Latino, L’Apprenti, che diceva di averne una copia disponibile. Presi la mia bicicletta e mi fiondai a recuperarlo.
L’antologia di Pierre Seghers nasceva come ideale continuazione di quella curata da Paul Verlaine nel 1884, in cui era stata resa celebre l’espressione “poeta maledetto” e che presentava i ritratti e i testi di Tristan Corbière, Arthur Rimbaud e Stéphane Mallarmé. A sua volta, Poètes maudits d’aujourd’hui proponeva una selezione di testi e schede biografiche di dodici poeti: Antonin Artaud, Gilberte H. Dallas, Jean-Pierre Duprey, André Frédérique, Roger Milliot, Gérald Neveu, André De Richaud, Roger-Arnould Rivière, Armand Robin, Jean-Philippe Salabreuil, Ilarie Voronca e Jacques Prevel.
Di questi, ben sette si erano suicidati, ma tutti avevano applicato con fedeltà il metodo rimbaldiano del «long, immense et raisonné dérèglement de tous les sens», portandolo fino alla dissociazione più radicale del proprio essere.
Lessi l’antologia di Seghers in una sola settimana. Il libro aveva una copertina dello stesso rosso dell’edizione tascabile del Manifesto del Partito Comunista di Marx e Engels e riproduceva un’acquaforte di Picasso intitolata Il pasto frugale. Il formato permettava di infilarlo facilmente nella tasca della giacca o in quella posteriore dei pantaloni e per questo lo portavo con me ovunque andassi. La maggior parte del tempo lo leggevo in uno dei bar della Rive-Droite dove il caffé costava ancora soltanto un euro e nei quali potevo restare seduto anche tutta la giornata senza essere infastidito e senza dover ordinare nient’altro (a quel tempo, campavo con il solo sussidio di disoccupazione ed una delle nostre tecniche di sopravvivenza, oltre a rubare nei grandi supermercati, era quello di trascorrere le giornate nei caffè cercando di scrivere almeno un verso decente o, se non altro, fare qualche incontro per cui valesse la pena di vivere in un appartamento di undici metri quadri con il cesso turco condiviso sul pianerottolo). Un giorno, mente ero seduto in uno di questi bar, lo Chat Noir, in Rue Jean-Pierre Timbaud, nell’undicesimo arrondissement, una ragazza di cui i capelli erano di un nero così nero da sembrare un’ombra, si avvicinò al mio tavolino chiedendomi quale fosse il mio preferito tra i poeti dell’antologia. Dissi che non avevo ancora terminato il libro, ma che, per il momento, nessun dubbio, Gérald Neveu mi sembrava la cosa più vicina a Rimbaud che avessi mai letto. Le citai una frase che allora mi pareva definire perfettamente cosa fosse la poesia: «La poésie, c’est sortir de soi et y faire entrer les autres». La ragazza si sedette al mio tavolino, ordinò un caffè e, dopo avermi detto il suo nome – Mylène – mi chiese di aprire il libro a pagina 164. Feci come mi disse e poi iniziò a recitare a voce alta, sorseggiando il caffè per separare i versi, una poesia di Jacques Prevel: «Ce que je peux dire / C’est que j’ai vécu sans rien comprendre». Continuammo a parlare di poesia tutta la notte, fino alla chiusura dello Chat Noir. Avevamo fumato almeno un pacchetto di sigarette ciascuno e, quando le finimmo, ci inoltrammo lungo il Canal Saint-Martin e, lungo il cammino, iniziammo a chiedere sigarette ai passanti che come noi ritardavano l’alba. Fumavamo con la schiena contro gli alberi spogli o contro le serrande abbassate dei bar, osservando l’intermittenza che la combustione del tabacco imitava nel nostro sguardo. Durante una sosta che facemmo dopo aver attraversato il Pont des Arts, una di quelle sigarette condivise diventò un lungo bacio, le sue mani che cercavano il mio corpo e le mie che spettinavano e cercavano di districare l’ombra dei suoi capelli. Attraversammo Parigi fino a giungere al mio appartamento di undici metri quadri dall’altra parte della città, le mostrai il cesso turco sul pianerottolo, facemmo l’amore, e, mentre fumavamo una sigaretta ottenuta con le briciole di tabacco che giacevano sul fondo del mio astuccio in cuoio, le chiesi perché Jacques Prevel fosse il suo poeta preferito. Prevel, disse Mylène, aveva la dolcezza e la collera di coloro che a forza di vivere all’ombra della morte non la temono più, come i terroristi, gli acrobati, i toreri, gli adolescenti e i poeti. Mal di vivere, rivolta, violenza, povertà, addizione alla droga, malattia e incomprensione hanno scandito tutto l’arco della sua breve vita, terminata a trentasei anni nel sanatorio di Sainte-Feyre per una violenta tubercolosi che ne aveva marcato l’esistenza.
Nativo di un piccolo villaggio della Normandia, Jacques Prevel (1915-1971) arriva a Parigi durante il cupo periodo dell’occupazione tedesca. Si stabilisce nel quartiere di Saint-Germain des Près con la cieca determinazione di darsi totalmente alla scrittura, rifiutando qualsiasi tipo di lavoro e accettando la miseria della poesia. Esistere, essere pubblicato, essere letto, uscire dall’emarginazione grazie alla sua poesia, questo l’obiettivo con il quale si abbandona completamente al demone dell’analogia e al long, immense et raisonné dérèglement de tous les sens. Nonostante la vicinanza all’ambiente surrealista e di poeti come Roger Gilbert-Lecomte, René Daumal, Hendrick Kramer e Luc Dietrich, membri del gruppo de Le Grand Jeu, Jacques Prevel è costretto a pubblicare a proprie spese il suo primo volume di poesia, Poèmes Mortels, nel 1945. Due anni dopo, nel 1947, ancora a sue spese, pubblica Poèmes pour toute mémoire. Nello stesso periodo conosce Antonin Artaud, di cui diventa il testimone dei suoi ultimi giorni, redigendo un diario pubblicato postumo col titolo En compagnie d’Antonin Artaud. Prevel vede in Artaud la realizzazione più radicale dell’esistenza poetica. In preda ai fumi dell’oppio, al laudano e ai barbiturici che gli procura lo stesso Prevel, i due amici sembrano consumare la propria parabola correndo insieme sull’orlo del precipizio. Artaud morirà il 4 marzo 1948 per le conseguenze di un cancro al retto. Nel 1950 Prevel pubblicherà De colère et de haine con una lettera di Artaud in prefazione in cui questi riconoscerà in Prevel la più forte delle affinità elettive per aver colto, come già lui, il sentimento del nulla: «le même néant vous prit que dans la dissolution du monde étrusque ou l’effondrement de l’empire des Incas. Je veux dire que votre poésie est sous la terre. La terre de plusieurs catastrophes entassées». Così come la sua poesia, il corpo di Prevel si ricongiunge con le viscere della terra spegnendosi il 27 maggio 1951 nel sanatorio di Sainte-Feyre. L’ultima silloge di Jacques Prevel sarà pubblicata postuma, nel 1952, da Pierre Seghers, col titolo En dérive vers l’absolu.
Mylène spegne la sua sigaretta guardandomi negli occhi come se li stesse inventando lì, sul momento, e dice: «Je hais l’écriture, je n’aime que la vie, et à travers l’écriture que je hais parce qu’elle me réduit le plus souvent à l’esclavage, je ne cherche que la vie et quand je la trouve c’est dans ce sentiment de toute puissance qui me soulève et me rend tout mon pouvoir». Ecco perchè Prevel è il migliore di noi, aggiunse. Quella notte, facemmo l’amore ritardando l’alba come se stessimo rimandando il giorno del giudizio. Al risveglio, ero da solo nel mio letto. Sul cuscino accanto al mio, la copertina rossa dell’antologia di Pierre Seghers sembrava una macchia di sangue.

 

 

Giovanni di Benedetto

 

 

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Ho sofferto…

 

Ho sofferto tutto ciò che al mondo si può soffrire
Ma ho conosciuto la gioia atroce del sogno
Ho conosciuto il dolore di cancellare il suo volto
tra le fiamme della mia ragione
Ho conosciuto nella notte avida di sangue
Il vento geloso di Dio
Il vento che non ha mai conosciuto la sua voce di bambino
Ho conosciuto l’attesa oscura
La folla avida e derisoria
Che distribuisce i suoi fantasmi annegando la mia memoria
Maremoto che infrange la mia esistenza
Attraverso le nebbie dei suoi occhi dispersi
Ho conosciuto l’ossessione di un male che venero
Ho conosciuto il tormento del dubbio e il suo volto
E le sue parole che, per un istante, cancellano il mio dolore
Confondendo la mia notte con i suoi occhi chiusi.

 

(da Poèmes mortels)

 

 

*

 

Ho gettato tutto nell’estasi e nel terrore…

 

Ho gettato tutto nell’estasi e nel terrore
La ragione stupida, il rapimento della debolezza
E la mia vita con le sue ferite
Sopra l’unica città al mondo c’è
Un grigio cielo opaco di lacrime
E il respiro di miliardi di nemici
Che con una mano senza alcun controllo
guidano il destino di questa città favolosa
Che ha fatto sua per sempre il labirinto e la miseria

Mi trovo in una stanza angusta
Che ha conservato il lusso della sofferenza
E di un amore vissuto nella fame
C’è sul tavolo spezzato
Un rompicapo e dei fiori che ricorderò
Tutta la desolazione della sua vita
Gettata su quel tavolo spezzato.

 

(da De colère et de haine)

 

 

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Revulsivo divorante

 

Revulsivo divorante, macerato da notti di scandalo
Gesto rovesciato con la precisione di un rito
Quando il sangue si compone di globuli assediati dalla morte
Questa disfatta di una sopravvivenza a colpi violenti in un groviglio di coaguli.
E ho vissuto nella vertigine del sogno
Un amore precedente all’amore
Dove nell’amara frattura c’erano innumerevoli deserti
Una sabbia granulosa come polvere di lacrime
Una sabbia appesantita dal mio sangue
E il mio sangue non mi ha lasciato nulla
Se non una febbre insaziabile e traboccante.

 

(da De colère et de haine)

 

 

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Tutti i nostri amici sono morti

A Roge-Gilbert Lecomte, René Daumal,
Hendrick Cramer, Luc Diétrich.

 

Tutti i nostri amici sono morti
Ci siamo smarriti nonostante tutte le nostre speranze
Ma eravamo esseri capaci di morire
E siamo stati fin troppo simili a noi stessi
Nessuno potrà mai capirci
Nessuno ci ascolterà
Nessuno ci ricorderà

Ma stasera, con il petto aperto
A tutti i battiti di un pesante disastro
Ricordo con le mie lacrime
E so che eravamo gli unici presenti ed eterni
Gli unici capaci di raccogliere l’eredità,
Di levarci come aratri
E di squarciare questo tempo morto.

 

(da En dérive vers l’absolu)

 

 

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Alla deriva verso l’assoluto…

 

Alla deriva verso l’assoluto
Non mi resta che violare l’ordine
Di ogni giustizia
Per liberarmi senza consenso
Dalla sua opprimente violenza
Ho vissuto nella confusione
E nella confusione sono morto
Cosa potrò dire in mia difesa?
Le mie forze si consumano e mi consumano nell’errore.
Sono un criminale
Che non ha compreso il gesto simulato.

 

(da En dérive vers l’absolu)

 

 

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Ciò che posso dire…

 

Ciò che posso dire
È di aver vissuto senza capire nulla
Di aver vissuto senza cercare nulla
E ciò che mi ha spinto fino al limite estremo
Fino alla più totale privazione
È dentro di me una forza sconosciuta,
Come un riso che affiora su un volto tormentato
Quando si è visto ogni cosa perdersi e morire,
E quando si è morti come loro per averle amate
Il vento, le foglie, la pioggia, il freddo
E quell’amore che dava loro una memoria.
Non potrò mai più, forse, ricordare,
Perché sono passato attraverso tutta la miseria,
E la mia speranza è stata crivellata da ogni miseria.

 

(da En dérive vers l’absolu)

 

 

 

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J’ai souffert…

 

J’ai souffert autant qu’on peut souffrir au monde
Mais j’ai connu la joie atroce de rêver
J’ai connu la douleur d’effacer son visage
Au feu de ma raison
J’ai connu dans la nuit avide de mon sang
Le vent jaloux de Dieu
Le vent qui n’a jamais connu sa voix d’enfant
J’ai connu l’attente obscure
La foule avide et dérisoire
Distribuant ses fantômes et noyant ma mémoire
Raz de marée brisant ma vie
A travers les brouillards de ses yeux dispersés
J’ai connu l’obsession d’un mal que je vénère
J’ai connu le tourment du doute et son visage
Et ses paroles effaçant ma douleur un moment
Et confondant ma nuit avec ses yeux fermés

 

(da Poèmes mortels)

 

 

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J’ai tout jeté dans l’extase et dans la terreur…

 

J’ai tout jeté dans l’extase et dans la terreur
La stupide raison le rapt de la faiblesse
Et ma vie avec ses meurtrissures
Et il y a sur la seule ville au monde
Un ciel gris tamisé de larmes
Et la respiration de mes ennemis par milliards
Qui conduisent d’une main sans contrôle
La destinée de cette cité fabuleuse
Qui s’est emparée pour toujours du dédale et de la misère

Je suis dans une chambre étroite
Qui a gardé le luxe de la souffrance
Et d’un amour qui a vécu dans la famine
Il y a sur la table brisée
Un casse-tête et des fleurs dont je me souviendrai
Il y a toute la détresse de sa vie qu’elle a jetée sur la table brisée.

 

(da De colère et de haine)

 

 

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Révulsif dévorant

 

Révulsif dévorant macéré par des nuits de scandale
Et geste retourné avec la précision du rite
Quand le sang se compose de globules attaqués par la mort
Cette défaite d’une survie à coups de boutoirs dans un amas de caillots
Et j’ai vécu dans le vertige du songe
Un amour antérieur à l’amour
Où il y avait dans l’amère rupture d’innombrables déserts
Un sable granulé comme une poussière de larmes
Un sable lourd de mon sang
Et mon sang ne m’a rien laissé
Qu’une fièvre intarissable et gorgée.

 

(da De colère et de haine)

 

 

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Tous nos amis sont morts…

A Roge-Gilbert Lecomte, René Daumal,
Hendrick Cramer, Luc Diétrich.

 

Tous nos amis sont morts
Nous nous sommes égarés malgré tous nos espoirs
Mais nous étions des êtres capables de mourir
Et nous avons été trop semblables à nous-mêmes
Et jamais personne ne comprendra
Jamais personne ne nous entendra
Jamais personne ne se souviendra

Et ce soir avec ma poitrine ouverte
A tous les battements d’un lourd désastre
Je me souviens avec mes larmes
Et je sais que nous étions les seuls présents et éternels
Les seuls capables de reprendre l’Heritage
De nous dresser comme des socs
Et de déchirer ce temps mort.

 

(da En dérive vers l’absolu)

 

 

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En dérive vers l’absolu…

 

En dérive vers l’absolu
Il ne me reste qu’à enfreindre l’ordre
De toute justice
Pour me détacher sans consentement
De sa violence qui m’accable
J’ai vécu dans la confusion
Je suis mort de la confusion
Pour ma défense qu’aurai-je à dire
Mes forces se détruisent et me détruisent l’égarement.
Je suis un criminel
Qui n’a pas compris le geste simulé.

 

(da En dérive vers l’absolu)

 

 

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Ce que je peux dire…

 

Ce que je peux dire
C’est que j’ai vécu sans rien comprendre
C’est que j’ai vécu sans rien chercher
Et ce qui m’a poussé jusqu’à l’extrême mesure
Jusqu’à l’extrême dénuement
C’est en moi je ne sais quelle force
Comme un rire qui transparaîtrait dans un visage tourmenté
Quand on a vu toutes les choses se perdre et mourir
Et quand on est mort comme elles de les avoir aimées
Le vent les feuilles la pluie le froid et l’amour qui leur donnait une mémoire
Je ne pourrai plus jamais sans doute me souvenir
Car je suis passé par toute la misère
Mon espoir fut criblé par toute la misère.

 

(da En dérive vers l’absolu)

 

 

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Giovanni di Benedetto (Napoli, 1987) vive a Parigi. Dopo aver conseguito la laurea in letteratura francese con una tesi sul romanzo surrealista, nel 2013 si trasferisce nella capitale francese, dove entra a far parte del Centre de recherches sur le surréalisme. Nel 2016, ha vinto il prestigioso “Prix de la Nouvelle” della Sorbona, primo scrittore non francofono a ricevere questo riconoscimento. Ha partecipato al numero collettivo su Roberto Bolaño della rivista L’Atelier du Roman (n. 109, Buchet-Chastel, 2022). Suoi testi sono stati pubblicati su Sud – Rivista Europea, Nazione Indiana, Minima et Moralia. Collabora con la rivista francese Zone Critique. Nel 2025 fonda il Groupe Surréaliste en Clandéstinité. Attualmente sta portando a termine l’edizione critica degli inediti di Arturo Benedetti.