Ci sono voci che identificano luoghi, e da questi luoghi sanno trarre fuori l’anima. Questo sanno fare le voci dei poeti. I loro passi palpitano lungo le strade, i porti. La gente riconosce nelle loro parole le impronte memorabili tracciate lungo la storia, la materia originaria dalla quale si eleva il dialogo tra i popoli.
Raffaele Carrieri, nasce a Taranto, nel 1905, poeta tra i più autentici e inquieti dello scorso secolo, grida chiaramente la sua appartenenza allo spazio vissuto, non solo geografico — quindi materiale — ma innanzitutto culturale, sociale, relazionale. (Compagnia ho trovato in ogni luogo / maniscalchi zingari barbieri / briganti con speroni e sonagliere / da cui ho imparato le imprese / di Orlando e Rinaldo paladini. / Tra carri botti battelli / tra vini pregiati e ruscelli / mi sono ubriacato di odori).
In questa deflagrazione esaltante di immagini e colori, Carrieri, come un pittore, esprime la forza creativa imprimendo i dettagli, le sfumature; rettifica ogni sbavatura, dispersione, per ridurre al minimo il vacuo, l’inconsistenza (Mio Dio quanto ho limato / notte e giorno. / Mio Dio quanto ho penato).
Scrittore, poeta e critico d’arte severissimo, Carrieri ha vissuto molte vite.
A soli quattordici anni, lascia la scuola e scappa di casa per viaggiare clandestino nelle regioni balcaniche, sostenendosi con lavori avventizi. Percorre a piedi la strada che dall’Albania porta al Montenegro, dove sosta, alcuni mesi, ospite di una comunità di pastori.
Torna in Italia per partecipare all’Impresa di Fiume, capeggiata da Gabriele D’Annunzio ma, durante il “Natale di Sangue”, una fucilata gli danneggia stabilmente la mano sinistra. Trascorre la convalescenza a casa e, guarito, si imbarca dal porto di Taranto per esplorare il Mediterraneo, l’Europa e l’Africa settentrionale, vagabondando come un povero diavolo, o un figlio del sole come Rimbaud¹ (Quello che sono e sono stato / domandatelo alle strade / dei paesi della sete).
Nella tenda del nomade Carrieri, tra le pagine al vento, la voce poetica si appropria dei suoi caratteri. Il poeta scava tra i paesaggi interiori, porta alla luce tesori nascosti, visioni che materializzandosi versificano la carta.
Ancora una volta, torna in Italia, e si stabilisce a Palermo, per due anni svolse la funzione di gabelliere, fino a quando, riparte, come marinaio, ed esplora le coste africane e del mediterraneo, per giungere, infine, a Parigi nel 1923. In preda al bisogno di dissoluzione, vive, cinque anni, da bohémien le strade frequentate dai maggiori artisti dell’Avant-Garde. Amico di Picasso, posa per lui come modello, e per sopravvivere accetta ogni lavoro gli sia offerto.
Geniale, irregolare, maledetto, Carrieri, ama, divora, annienta, e solo come un sonnambulo dietro ad una porta, attende la visione ultima da annotare nei suoi versi, ne è un esempio audace il componimento, Calepino di Parigi.
Il resoconto di questo periodo intenso, e degli anni a venire, va ricercato nelle prime pubblicazioni, Il lamento del Gabelliere (1945), Souvenir caporal (1946), La civetta (1949), e nelle successive, Il trovatore (1953) vincitore del Premio Viareggio, Canzoniere amoroso (1958), La giornata è finita (1963), Io che sono cicala (1967), Stellacuore (1970), Le ombre dispettose (1974), Fughe provvisorie (1978), La ricchezza del niente (1980).
Da questi titoli, una selezione puntuale di componimenti è stata curata da Stefano Modeo in, Un doppio limpido zero. Poesie scelte 1945-1980, edito dalla ormai celebre casa editrice, anch’essa pugliese, Interno Poesia, che ai classici del secolo scorso ha dedicato un’intera collana, Interno Novecento.
La vita di Raffaele Carrieri prosegue a Milano, città che lo adotta definitivamente fino agli ultimi giorni. La sua anima rimane irrequieta, ma riconosce nel capoluogo lombardo un approdo sicuro. Il figlio ribelle della Magna Grecia, medita, ora, il riposo. Ingaggiato come giornalista e critico d’arte, si guadagna da vivere scrivendo per periodici e riviste, curando cataloghi monografici dedicati ai grandi pittori contemporanei, tra i quali spiccano: Modigliani, Picasso, Fiume, Guttuso, De Chirico.
La sua attività di saggista è accompagnata a quella di scrittore di novelle e romanzi. Ma, la poesia rappresenta per Carrieri una valvola di sfogo preziosa, la chiave di volta attorno alla quale ruota l’archetipo di un sistema complesso di passioni e tormenti, rigettato in versi nelle pagine come moltitudine di costellazioni che attraversano e segnano, indelebilmente, le stagioni della vita. La biografia si interseca alla prolifica opera poetica. La grecità, i richiami alla mitologia e alla cultura classica, il paesaggio mediterraneo e ogni luogo vissuto, ardentemente, dall’artista e dall’uomo, sono i riferimenti ricorrenti riscontrati nelle sue raccolte poetiche.
Carrieri sarà, infine, consegnato alla critica del Novecento, che ne apprezza e ne comprende il valore, ma troppo presto dimentica.
Dopo anni di silenzio, e titoli mai ripubblicati, in quest’ottica, Un doppio limpido zero, ci pone dinanzi ad un duplice intento: far riemergere dall’oblio il Poeta, rendendo fruibile al lettore il nucleo fondamentale della sua opera in versi, e, unitamente, rivendicare l’Uomo che, prossimo alla morte, tende la mano e chiede di essere riconosciuto.
Dal vuoto invano mi scuoto. / E rotolo, rotolo/ nell’illusione d’essere/ di nuovo vivo.
Massimo D’Arcangelo
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Quando canti
Civetta, quando tu canti
quando batti sul mio cuore
l’antico mesto richiamo,
quando intrecci sul mio cuore
il primo al secondo anello
come un doppio limpido zero,
quando dai cieli morti
al silenzio vedova torni
nel breve giro di un suono
leghi la mia alla tua notte.
*
Il verme il frutto
Io sono quello
che sbaglia tutto:
il verme il frutto.
Sbaglio l’amore,
sbaglio le ore
del batticuore.
Sbaglio a salire
sbaglio a discendere.
Sbaglio l’assenza
e la presenza.
Io sono quello
che sbaglia tutto:
sbaglio nel largo
e nello stretto.
Sbaglio a fuggire
sbaglio a stormire.
Sbaglio a morire
dove non sono.
Io sono quello
che sbaglia sempre:
sbaglio nel dare
e anche nel prendere.
Sbaglio a ferire,
sbaglio a guarire.
Sbaglio a star solo
e in compagnia.
Ahi vita mia,
sbaglio follia.
*
Ci siamo riconosciuti
Ci siamo infine riconosciuti
nei grilli caduti
dal cielo d’estate.
Come gli zingari rovinati
da un medesimo editto
abbiamo salvate
le donne e i loro capelli
che ci fanno ombra
sulla pianura.
Abbiamo tolto il lutto
a specchi e campanelli
per divertire l’anima scura.
Commedianti e mendicanti
ci siamo riconosciuti
come l’uva
di una medesima pergola.
Ci siamo messi a cantare
e a ballare
al suono dei tamburi
ciascuno con una cicala
in quadriglia.
Ah, occhi duri
che ci invidiate l’allegria
le donne e i dadi
nella terra di nessuno:
per fare freschi sguardi
ci son voluti millenni di digiuno.
*
Le stanze oscure
a Cesare Peverelli
Nelle mie stanze
le distanze sono deserti:
volano uccelli morti
e spengono i lumi.
Nelle mie stanze
le distanze sono silenzi
dove lavorano ermellini
a rimuovere ceneri:
regni apocrifi
mangiati dai vermi.
Nelle mie stanze,
studiose le tarme
seggono agli angoli
a leggere i segni
delle mie mani:
nei tortuosi meandri
oscuri presagi.
Dalle crepe dei muri
intravedo i paesaggi
biancastri degli astri.
Commerciano larve
e muffe i fantasmi.
Nelle mie stanze
l’angoscia m’insegue
fra i calcinacci.
Alle grate alle porte
parlate più forte.
Raggela il silenzio
il mio cuore.
Clamore, clamore:
parlate più forte
nella prigione.
© Fotografia di Ugo Mulas