Poi raggiunse un frammento di eternità – Di Eliza Macadan
Fin qui visse un uomo, ma la vita rimane una corrente inninterrotta, forse più lenta e ostacolata ora, ma continua tuttavia a scorrere. E dentro ogni uomo c’è una sorgente molto profonda, e in quella sorgente c’è Dio. Nel libro del giovane poeta Gerardo Masuccio ci dissetiamo a questa sorgente, dal primo fino all’ultimo verso. Il materiale lirico – poiché il lirismo gira libero, senza mascherina, in questa raccolta – è organizzato secondo una ispirazione di stampo numerologico: sei sezioni più una poesia di chiusura che indica, o meglio ci fa pensare, ad una settima sezione, che c’è e non c’è. Il numero sei rappresenta l’incompletezza, l’imperfezione, poiché incompleto e imperfetto è l’essere creato rispetto al suo creatore. In quanto essere finito e creato, l’uomo è soggetto alle leggi del tempo, alla necessità della natura. Anche nel Vangelo di Giovanni, Gesù muore il sesto giorno, perché con la sua morte si completa la creazione dell’uomo vecchio e viene ricreato l’uomo nuovo, che nell’amore di Cristo trova la sua massima espressione e somiglianza con Dio. La nuova creazione continua così attraverso la vita di Gesù, l’uomo nuovo adesso ha la strada tracciata per raggiungere la sua pienezza di vita, accogliendo l’amore di Dio e trasmettendolo ai suoi simili. (Ti sento radice del mio ramo/ e dentro mi cresco il tuo senso;/ tu resti il mio/foglio di via/ dal delirio dei giorni,/ certezza – con Cristo, il tuo Cristo – /d’amore./E adesso che lenta ti/muovi,/ io – svelto – t’aspetto./ Tu sola conosci la strada. p. 48)
La poesia di chiusura, che sta sotto un titolo, Congedo, è la settima sezione, cui accennavo prima – sette è il numero divino perché riferito al riposo di Dio dopo la creazione. ( Il numero di chi non ha più voce/ è ancora – inerte – / nella rubrica dei vivi,/ la polvere insegue l’assenza. p. 103)
E subito prima, nello stesso testo: (Eppure nei recessi del pensiero/ dove mi è ancora dato/ di tradirmi,/l’impermanenza annoda le radici/ a superfici incerte,/ al provvisorio. p. 103). Pensare è una bella occupazione, ma non puoi pensarti fuori quando hai uno stato d’animo penoso, ed è allora che si diventa passivi, si ascolta e si riprende il contatto con un frammento d’eternità.
Nelle sue Confessioni, Sant’Agostino scrive che se noi torniamo al nostro cuore, troviamo Dio nascosto, lo sentiamo più intimo di noi stessi e più alto delle cime che sono dentro di noi.
Nelle poesie di Masuccio l’introspezione c’è, ma non è eccessiva, l’inferno personale è superato, c’è una frattura, poiché il titolo stesso la indica, ma non è brutale, la breccia è decisa, sì, nella partizione ritmata del vivo e porta in primo piano accenti nuovi e una nuova compressione del vuoto, della finitudine. (E – candore immortale – mia madre/ ignara gli insegna/ che un ricordo non teme la morte/ ma sfida la vita. p. 24).
La cultura letteraria in generale e quella poetica in particolare è per il giovane poeta il suo ambiente naturale, un bagaglio quotidiano, uno strumento che lo aiuta a esistere in stato di veglia, ma anche uno sostituto per il suo esistere, una effigie.
Una tonalità elegiaca percorre i versi, una nostalgica ventata di vita già vissuta, ma che richiede di continuo i suoi diritti, si risveglia nei luoghi che la memoria accende per portare sacrifici ad alcune divinità familiari: (“un limbo di nebbia in cui morire/ a cuore vivo”. p. 39; “ricurva sul mare/ per coglierne un’onda”. p. 38).
L’età per i pensieri ossessivi della morte e le angosce della vita è, forse, impropria, ma i sintomi ci sono e mostrano uno spettro di finitudine presente, visibile, che rilancia di continuo una mirabile melodia intertestuale.
Il mistero è celebrato non con una baldoria, ma con un silenzio autunnale (“di un autunno che ogni anno si inverna.” p. 19).
Il muro informe della malinconia qua e là viene adornato con il viso o le mani dell’amata, che rimane fantasma con tanti nomi, ma la stanchezza e la confusione del poeta permangono: (“Ho murato – all’oscuro da me –/ il varco al mio cuore/ con schegge di fedi crollate/ e frantumi di bene,/ con detriti di affetti franati/ e frammenti d’amore. / Tu sola conosci la crepa/ che a lungo ho cercato:/ valicarla moltiplica il nulla,/ ma il tuo passo lo attenua d’immenso”. p.78)
Una maturità d’espressione che sorprende, i toni sono dell’età adulta, i suoni sono elegiaci, i brividi sono nostalgici, ma l’ala della sua Poesia è ben più larga – c’è in Masuccio una morale malinconica e rivoltata, un biografismo sublimato, il suo presente è il riflettersi di un’era – (“Ho appeso ai miei anni/ le rughe di olivi annodate/al singhiozzo d’agnelli;/ la sorte di un poeta/ è scontare cent’anni in un giorno. p. 25) – tanto da far venire in mente Il primo uomo di Camus.
Le poesie di Fin qui visse un uomo sono il dialogo del poeta con Dio, il dio scritto timidamente con minuscola in tutto il libro, il Dio che ha trovato Masuccio mentre guardava il blu dei mari e dei cieli del Sud o forse mentre con la testa piegata scriveva queste poesie, che sono impareggiabili supplenti di preghiere.
Gerardo Masuccio
Fin qui visse un uom, Interno Poesia, 2020