Paolo Polvani – Inediti

Paolo Polvani è nato nel 1951 a Barletta, dove vive. Ha pubblicato diversi libri di poesia, ultimi dei quali: Una fame chiara (Terra d’ulivi, 2014), Cucine abitabili (MR Editori, 2014), Il mondo come un clamoroso errore (Pietre Vive, 2017), L’azzurro che bussa alle finestre (Versante ripido, 2018), Miracoli del giorno (Macabor, 2023). È presente nel Quinto repertorio di poesia italiana contemporanea (Arcipelago Itaca, 2021), e in Ossigeno nascente, censimento dei poeti italiani curato dall’Università di Bologna. Alcune sue poesie sono state tradotte in inglese, spagnolo, portoghese, romeno, giapponese. È tra i fondatori e redattori della rivista Versante ripido.

 

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L’EPOCA DEI MORSI E DEI FURTI DI CILIEGIE

 

Ci accolse l’epoca dei morsi e dei furti
di ciliegie, dei soldatini di soppiatto in tasca,
della furia antropofaga di Federico, i denti
piantati fino nel ricordo. L’epoca dei nonni
che lentamente evaporavano e lasciavano soltanto i nomi
a fluttuare tra le poltrone del soggiorno.
Le loro ombre ondeggiavano come meduse azzurre
e si affacciava la paura dei morti.

L’epoca del frastuono dei treni, della deflagrazione sincera
dell’Adriatico, della meraviglia che invocava un nome
per riconoscersi, progettava un nido.
L’epoca dei giochi restituiti, dei convenevoli
delle mamme, le smancerie da salotto, dei lunghi
naufragi sul pavimento, meditazioni in forma
di fantasticherie, storie di assalti e nessuna ansia
di crescere, di spalancare spiragli, solo quelle ciliegie
da ficcare in bocca, di nascosto, senza
masticare, solo aspettare il momento buono.

 

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NELLE GANASCE DELLA NOTTE

 

Con quale ostinata grazia incoronano le stelle
le colline degli ulivi accomodate nella sera
come spettri pronti a decollare. Le inghirlandano
con familiarità antica, per inveterata consuetudine.

Mentre la Via Lattea ci passeggiava sulla testa
dimenticavamo l’appello del sole e la protervia
dell’infanzia affamata di corse e di cespugli,
di spine e di sonora esuberanza, di sudore
e di convulse aspirazioni, basilari come una merenda
di pane e pomodoro, gridi che somigliavano
allo schiamazzo delle rondini, dimenticavamo
le mosche torturate e le code di lucertola, i sospiri
delle zie e la figlia del guardiano che dapprima
riottosa, poi sempre più convinta ci aveva mostrato
le mutandine a fiorellini rosa. Dimenticavamo
i muretti e i sentieri disseminati di pietre e ciuffi d’erba.

Dimenticavamo i piccoli pugni sul cuscino, abbandonati
nelle ganasce della notte, gettati, armi e bagagli, nel furto.

 

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IL PREZZO DI CAMMINARE NEL MONDO

 

Fu la paura un fedelissimo cane,
mai dimenticava di azzannarmi, decise
di stare con me, era lì, una parallela che ancora
tende all’infinito, mi precede, la paura
è stata un persecutore calibrato, una felice
persecutrice, mai sazia, mai stanca,
una corrente d’oceano conficcata fino dentro
i bagliori aurorali della mente.

Mi prese al mio primo vagito, impresse il suo bacio
al primo dente caduto, auspicio di un adulto
futuro, la paura inviò i suoi segnali
quando incerto compitavo le prime vocali, quando
tracciavo segni balbettanti sul foglio, una cometa
di paura ha sempre attraversato la notte, una folata
ha sempre spalancato le porte, un guizzo, un sussulto,
una tenaglia di freddo, ancora mi chiama,
mio angelo custode perenne e presente,
la mia salvezza, il prezzo di camminare nel mondo.

 

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RUBARE UN COCOMERO

 

La felicità di rubare un cocomero e mangiarlo
come veri ladri nella campagna dove il sole
intona un motivetto allegro e tuttavia ripieno,
infarcito, gonfio di una strana malinconia, rubare
un cocomero e sputare i semi più in alto, sputarli
come pretacci neri, lugubri assassini di sogni,
sputarli come fossero gli abbracci soffocanti di zie morbide
con smancerie che anestetizzano, sputarli come si sputa
il dolore del dovere, tutti quei cataloghi morali
che vorrebbero impedire di rubare cocomeri sotto la canzoncina
del sole affettuoso di settembre, rubare un cocomero
ed essere felici che dio è girato dall’altra parte
mentre noi sputiamo i semi al cielo e ingurgitiamo gioia.

 

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BUTTARE GIÙ DEI VERSI

 

Me ne stavo aggrappato come a una certezza
a quelle belle parole luminose, rotonde, a quell’accoglienza
morbida, materna, alla magia di quel sapore, a quelle parole
che non volevo sporcare con l’accento, a quelle
parole da portare in processione come santi, artefici
di tutto quello che c’è ed è consentito nominare.

Ci ficcavo dentro gli artigli come un gatto,
ne sperimentavo la consistenza, il suono, le soppesavo
tra le mani, ne saggiavo gli spigoli, i contorni, e come
un bracco le fiutavo, le marcavo di minimi schizzi,
ne assorbivo gli odori di città o di bosco, di primavera
o di scomparsa, tutte quelle parole saporite
gonfie di domande. Fu così allora che buttai giù
dei versi, con dentro l’istinto della celebrazione,
dell’esplorazione religiosa, quel suono che infonde
vita e fa nascere il pane, muove il gatto
verso di noi, ci fa vedere il mare e il ruminare
delle onde, nomina il vento, fa crescere il grano,
scrivi amore e un fuoco brucia da qualche parte, dici
una cosa e tu la vedi, te ne stai appollaiato
su quel segno che progetta, che proietta il mondo.