Mario De Santis è nato a Roma. Ha scritto tre libri di poesia: Le ore impossibili (Empiria, 2007), La polvere nell’acqua (Crocetti, 2012), Sciami (Ladolfi, 2015). Laureato su Cesare Viviani con Biancamaria Frabotta. Oltre ad aver condotto trasmissioni culturali in radio per circa trent’anni, ha scritto per Poesia, Atelier, i blog Nazione Indiana, Doppio zero, per Robinson di Repubblica e realizzato cicli di interviste per Repubblica TV. Attualmente giornalista di area digitale del Gruppo Gedi, scrive di teatro per Huffington Post e libri per minima&moralia. Collabora con il semestrale “K” de Linkiesta per la sezione poesia e cura la rubrica settimanale “Certi versi” su “Specchio”, inserto de La Stampa.
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Venire a galla dal sonno col segnale dell’ora, sembra “le nove”
(il percepito fa dire “il nome” o “la notte”?) galleggiando di luce.
Roco e flebile via radio, in un tempo diverso, l’allarme
(qualcosa da dove? Si chiede – “quarante jours” (c’è un porto?
C’era una storia di giorni senza lune nuove
di assedio e prigione, di covi in un imbuto di eventi
singolari). Si associa a caso, sono due notti uguali, senza giorno.
In una sostanza che non ha blu né terrore, unite le parti diverse:
gabbiani in frenesia, correnti di numeri e dati nei cavi, i corpi pronti
negli uffici, solubili nel sale, intercettano i sussurri,
dove passano i segreti dei nemici, le foto oscene, l’odio e amicizia
(i dispersi sentimenti delle vite in superficie, inafferrabili.
Ed è lì che ritorna, senza nomi stavolta, la risacca del mattino
della memoria di tutti, nei lavori dove sono distrutti antecedenti.
Il doppio mondo clandestino, nelle derive, in uno stallo
(la trattativa infinita al telefono “e dove? Annegato?”)
e implausibili i visi in azzurro come depositi d’ossa pulite,
da non trattenere – la traccia della cosa che è stata gettata
all’orizzonte e non era nemmeno una cosa,
forse una data, l’ora precisa del nascere.
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(La cronaca com’è)
la mia vita infine era mal detta mal intesa
mal ritrovata mal mormorata nel fango
Samuel Beckett, Com’è
In un giardino, riversa sotto rose a ruggine – la donna giace
nei suoi muscoli, simile ai corpi altrui – e questi
inutili, solubili, infiammati (è folgore, è camera
al fosforo, l’oscura) corpi rinchiusi in tunnel e straziati
dalle discopatie, ricurvi nei rovelli dei lavori
(e somigliano a tutti, ci si distingue per malattie più che destini).
Lontano lo sfarfallio celeste vivo (ancora lampi? o polizia?)
illumina le foglie, la luce è latte, un lago
lo spazio bianco in cui se ne sta, caduta, capovolta.
Aveva appena aperto i suoi messaggi – il telefono è lontano
(indossa cuffie da cui viene musichetta disco,
la litania di “attenda, prego”) caduto dalla mano
(ha tracce di borotalco, in bocca caramelle).
Distesa lungo il muro, mentre tornava dalla Conad
sta dove è scritto in grande “W”, solo così,
una rivolta afasica, che non sa più che cosa viva
e a cosa inneggi, mentre una goccia della prima pioggia
dava leggero touch sul tasto verde (“rispondi a call”
a nessuna voce viva, non solo queste dove siamo).
Qualcuno più distante corre, sotto le stesse rose.
due fidanzati in lite, con lei che se ne va: feroce
si gira, quando lui la tocca, per dirgli a muso duro che –
no, niente (perché è lì che lei la vede. A terra, e sa. Come è finire).
*
Alberi e filari, una rete della prigione alla terra
tocchiamo lo stesso l’assurdo dei climi, ad ore inverse,
a vederli fiorire per forza. Ma non c’è amore, solo acume
in questo paesaggio spezzato, quest’agro impegno che diamo
al sottosuolo, quest’uso del concime come una violenza,
il prelievo di ninfe, fantasmi e minerali – è tutto un avvenire
bellissimo in foto, che si sgrana in chimica. (Più vivo il “dopo”
di forre e pezze d’orti sull’Aniene abbandonate, con secoli
di mani nostre, lasciate andare, dimenticate: i veri passi
dove coincide domani e mai più). Anche la scorza petrosa
di argille, il loro impasto di bruni di ruggine, il guano,
avrebbero scelto la stasi eterna e spontanea, se solo interrogati
o trent’anni di niente, libero, l’intero giro di una vita che si scioglie,
senza la geologia crudele e lenta di nascite e inganni.
Nell’apparire di foglie e giardini, nei discorsi delle bocche
che torna a fare del seme un rimpianto, c’è solo tortura.
Nell’abbandono, finito di generare il verde, di sputare
germogli (tutti figli di massacri e creazione) cade
l’impossibile, che inventa ciò che non ci rassomiglia.
*
(A R.P.)
1.
“Lo sai, è veramente la fine di ogni cosa”
dice di un amore – e mente, solo cerca
dove si rompe il coltello sulla tempia, l’assedio
di una sera, il capogiro dove scendono i pianeti
la loro forza che calma, il loro freddo che cura.
“Perfetto il taglio, che segue l’orbita di un gesto da fare.
Anche ingiusto, come tale” dice ancora (qualcuno tace)
cercando come perso la sua stasi nella retta dei viali a Prati,
cercando quella chiesa (qualcuno ora lo dice)
“invisibile anche dal cielo”. Si guardano gli occhi, vessilli
di popoli che abitano due gerghi del silenzio
dove tutto era già detto da altri, di aborti, di telepatia.
Gennaio impallidisce, i negozi non apriranno
mai più, l’aria fittizia di questo inedito inverno
non si vede, come il dio che ci abbandona impotente
a Capodanno, nel ballo di alcolici, nel giro di case in affitto.
2.
Chi le abita, esce la sera coi topi, lune che indorano e bar elettrici
a scavare in un milione di bicchieri, alle finestre,
tra i vestiti poggiati sulle sedie e le buste di rifiuti
che colorano tetre i portoni. Non che sia terra così bella,
ma è una città come un’altra, serve a proteggere distanze,
il sì che c’è nel no, la cosa che appartiene
da quella che ogni ora si consuma.
Lamiere e marmo a splendere, come un banale altrove.
Invece in un giro di tango accennato, l’incontro preciso
in un saluto che manca, è solo questo: giorno che impazzisce,
improvviso, poi muto. “Vengono in molti, ogni giorno in questo bar
e aspettano”. Il vertice del vetro è nella trasparenza
di due corpi senza ordini, andando via senza parole.
“C’è libertà di fare, in assoluto, ma non serve”.
“Ci sono le scelte tutte possibili, non si distingue”.
Resta il precipizio di un volto in una testa, da solo
una stella abituata a bruciare in un guscio labile.
Non c’è un abbraccio (qualcuno resta fermo, l’altro
camminando) nella sosta all’angolo, poi chissà che vie.
Danno pace i lavori nella terra per il gas
e niente nasce. Non si vede più la scia di fango,
da dove tutto era venuto, dove tutto non ritorna.
© Fotografia di Dino Ignani