Marco Melillo
Inediti
(“per il mare nero”)
Essere di umore nero da più non sentirlo e
partire
fidarti di quelli che incontri per non aver scelta
gridare soltanto in silenzio perché non hai fiato
abbastanza stringere gli occhi per il troppo sale e del
sonno che arriva forzare la costa, prenderla come si
prende una curva sbattendo, senza poter più girare.
E poi rialzarsi sfidare la pena del mondo, gli occhi
di chi ci confessa di avere pietà, vivere come fantasmi
perché l’apparenza vi sfugge mentre tu rimani,
piangere gioia soltanto se arrivano fino al tuo naso le mani
e le vedi, soltanto ora.
Per chi non parte
o s’arresta alla sponda sicura del mare
la scelta è un azzardo perché non sa come
perché non immagina
che tra le porte del sole
i miraggi confusi al paesaggio sono stelle vive
una tappa di buchi di sole di spiagge di luce.
*
La notte sbaglia al di sopra di loro.
Facile dare la colpa a chi scappa
a chi spinge qualcosa di vivo
nel mare inautentico dell’abbondanza.
Facile pure il parlare
purché la vergogna abbia tratto lezione
dalla stessa legge
l’errore
oltraggiando un confine deciso dalle istituzioni
una muta di scogli
spacciando parole.
*
Moustafà dice che deve tornare al paese,
la madre in coma e chissà se suo figlio
ora lo riconosce.
Tiriamo i dadi a capire se è meglio partire
o tornare, ma è certa vulgata a farci pensare
che esista una dicotomia vera e propria
tra il vivere e il lasciarsi andare.
Ora un aereo che passa, i remi in barca
e le note postate nel buio sugli specchi
l’agone è finito, non c’è più uva a Corinto
che sappia risplendere in vino,
e non c’è nave che parta nella luce obliqua
sicura e protetta dal primo mattino.
Nuove frontiere annunciate per i costruttori
di tende
per i falegnami accecati dall’ira
che si manifestano nelle battute al veleno,
in rotta verso la Siria e distratti dal rosso lucore
tardissimo di pergamena.
Fotografia di proprietà dell’autore