Io penso effettivamente con la penna, perché la mia testa spesso
non sa nulla di ciò che la mia mano scrive.
Wittgenstein, Pensieri diversi
S.P. Wittgenstein, nei Pensieri diversi da cui trae ispirazione questa nostra chiacchierata, si mostra interessato a cogliere, quasi a sorprendere, il momento in cui «il pensiero (…) lavora per arrivare alla luce». Mi piace immaginare che l’àncora per questa risalita sia il verso. Nella stessa opera, Wittgenstein precisa: «credo di aver riassunto la mia posizione nei confronti della filosofia quando ho detto che la filosofia andrebbe scritta soltanto come composizione poetica» specificando ulteriormente che «il lavoro filosofico è propriamente… un lavoro su se stessi. Sul proprio modo di vedere. Su come si vedono le cose. (E su cosa si pretende da esse)». Qual è la tua posizione nei confronti di una concezione della poesia come sguardo euristico in cui alla riflessione ‘filosofica’, in un senso molto ampio e composito del termine, si intrecciano indagine estetica e formale? Recuperando l’etimologia greca della parola, che si appoggia al verbo poiêin (fare), può la poesia divenire esercizio di sguardo critico su di sé e, di conseguenza, sul proprio modo di guardare alla realtà? Portando all’estremo limite queste riflessioni, il sé resiste alla poesia?
A.F.P. – Per rispondere a questa domanda devo fare un po’ di backstory, sperando di non annoiare troppo. Il modo in cui filosofia e poesia si intersecano, o possono intersecarsi, mi ha interessato particolarmente nei primi anni della mia scrittura, e ha lasciato una traccia evidente, ad esempio, in Lo spettro visibile, dove, anche attraverso il ricorso diretto al linguaggio filosofico, si sperimentava proprio la tenuta della poesia di fronte (dentro) a una pratica conoscitiva, che precisamente era quella delle scienze naturali, ma che aveva un approccio appunto filosofico, inteso come desiderio di scoperta e ragionamento. Esiste quindi in me, da qualche parte, un’idea di letteratura come forma peculiare di gnoseologia. Tuttavia, proprio attraverso Lo spettro visibile – ed è questo che più mi piace della scrittura, quando il fare un libro ti porta altrove rispetto a dov’eri prima di iniziare – ho visto come la spinta gnoseologica entrasse in conflitto con un’altra che invece riconduceva il discorso sui mezzi della scrittura, sui suoi imprevisti, e quindi sulla sua natura per niente pacificata da un’ideale trafila rivelatrice (scrivo su x, scopro x attraverso la scrittura). Ho capito – per me, per il mio percorso – che la questione fosse anche pragmatica, che i libri sono installazioni, e che gli oggetti cui tendevo nello Spettro, scelti apposta nella loro (presunta) nudità assoluta (piante, animali, minerali), erano sì oggetti materiali non antropomorfizzati e violenti nel loro non essere umani; ma anche spettri appunto, e in senso non mistico, evanescenze della lingua. Questo per dire che se è rimasta – ed è rimasta – in me un’idea filosofica di poesia, nel senso della volontà di far entrare nella scrittura anche l’istanza della ragione, il concetto, il sillogismo, è venuta meno la fiducia verso una poesia-filosofia intesa come scoperta sicura di un oggetto. La filosofia, o, meglio, il modus ragionativo del linguaggio, credo sia entrato in poesia, a livello storico, per via della progressiva tecnicizzazione dei saperi, dell’industrializzazione della società e dell’istruzione di massa. È inevitabile che risultino un po’ vuoti, di conseguenza, i tentativi di usare la poesia come se questi fenomeni non fossero mai accaduti – perché questo è il linguaggio del mondo e una poesia che non scrive dentro il linguaggio del mondo spesso si sta solo pericolosamente girando dall’altra parte. A questo punto il gioco (filosofico!) diventa non più quello della poesia che in quanto filosofia pre-filosofica raggiunge per mezzi magici la verità di un oggetto del pensiero; semmai quello che, consapevole del fatto che il sapere si fa con i linguaggi, e che il nostro mondo presente è un mondo di ipertrofia dei linguaggi, li fa cortocircuitare in se stessi oppure – se pensiamo alla lirica – dentro il soggetto preso come test di questo cortocircuito. È filosofia in senso wittgensteiniano, secondo me. Filosofia della crisi che deve eccedere la propria forma. Questa eccedenza, però, a mio gusto, non ha più bisogno dell’eversione delle avanguardie novecentesche, sì del gioco del nascondimento e della persuasione che è proprio della verbalità in cui siamo immersi oggi. Il sé resiste a questo cortocircuito? No, se al sé diamo – nonostante la crisi – il ruolo di ordinatore del senso o, ancora più rischioso, di detentore del senso tramite la sua esperienza. Alcune scritture non si pongono proprio questo problema perché sono installative e procedurali e hanno interesse a friggere i linguaggi tra loro in quanto tali. Altre scritture – a me interessano, innanzitutto da lettore, entrambe – si pongono (ed è giusto nell’alveo della loro impostazione) ancora il problema del sé; ma mi sembra che lo fanno vivo solo se appunto sono consapevoli di questo stadio delle lingue, che è anche lo stadio dei mezzi della filosofia e della poesia, appunto, e delle loro perforazioni.
S.P. Come si tratteggia, nella tua poetica, il limite poroso tra esperienza privata e universalità del linguaggio? Se poesia è ‘messa in forma’, in che rapporto sta il gesto poetico col magmatico coagularsi dell’esperienza, personale e collettiva? Questo confine di difficile definizione influenza in qualche modo la tua concezione della scrittura?
A.F.P. – Premetto che fatico a gestire il concetto di universalità, a prescindere dall’ambito a cui lo riferiamo. In poesia questa fatica aumenta ulteriormente, visto che – almeno per come la vedo io – il gioco della scrittura sta proprio nell’assoluta parzialità, intesa da un lato come frequentazione del limite del linguaggio dall’altro come parzialità (situazionalità, incarnazione, ideologia) dell’esperienza. In linea con quanto dicevo sopra, in poesia non si sperimenta (o io non sperimento) una natura superiore del linguaggio, o forse solo da un lato del ring. Detto meglio: nel momento in cui scriviamo (e leggiamo) tendiamo a sospendere l’uso ordinario del linguaggio, che è di per sé (presunto) trasparente. Passami il sale significa passami il sale. Nel momento in cui mettiamo in crisi questa capacità referenziale e lineare entriamo nel campo del poetico, larghissimamente inteso, e questo attiva due elementi: da una parte la percezione di una capacità ulteriore della scrittura, che attraverso una serie di associazioni, disposizioni, fratture del linguaggio apre orizzonti insoliti; dall’altra la consapevolezza del linguaggio stesso, della sua presenza, che è un tutt’uno con la rivelazione della sua finitudine e della dose artificiale, convenzionale, preimpostata della sua costituzione. In certo senso per me scrivere è esplorare le reciproche implicazioni di queste due scoperte. E solo con questa considerazione del linguaggio riesco a ragionare sul confine tra esperienza “privata” (che interamente privata non può essere) e “universalità” (che universalità non è) del linguaggio. Senza competenze scientifiche in merito, e solo come mia immaginazione, cioè come mia scrittura, tendo a pensare che l’individuo esista, sì, come autocoscienza, ma solo su un certo layer del discorso: è una concrezione che si mette in campo nel momento in cui poniamo all’esistenza una certa domanda (io chi sono? cosa posso fare? cosa devo fare?…), che è una domanda essenzialmente morale. Questa domanda è fondamentale, ma non è l’unica, e non esaurisce il campo dell’esistenza e dell’esperienza, che è anche politica, biologica, economica, linguistica eccetera, layer in cui non sempre la concrezione «io» si realizza o risulta significativa. Ne deriva che più che quello demiurgico di mettere in forma, e in ordine, il magma esperienziale, comunicarlo e/o sublimarlo, il gesto della scrittura è il gesto palombaro di infilarsi in un ginepraio in cui l’esperienza si contraddice e il linguaggio si contraddice. L’educazione cui siamo sottoposti tende a convincerci di una serie di linearità e consequenzialità dirette dell’esperienza e del linguaggio: parlo quindi dico, consumo e perciò sono felice, merito di mangiare solo se lavoro, ho un dottorato allora sono intelligente, Hamas compie un attentato di conseguenza Netanyahu stermina gli abitanti di Gaza. È evidente che queste linearità, per esempio, sono false. Ecco, la scrittura non mette in forma l’esperienza dell’individuo; la scommette attraverso la lingua in un sistema di layer di senso scorrevoli e reciprocamente sabotanti.
S.P. «La realtà non è tenace, non è forte, ha bisogno della nostra protezione», denuncia Hannah Arendt ne Le origini del totalitarismo. Personalmente ritengo che, se esiste possibilità di protezione, questa si realizzi soltanto affinando uno sguardo attento, capace di non dissimulare, che attraversa e fa suo il coraggio della testimonianza. Come ti poni nei confronti del rapporto tra poesia e realtà? Esiste, dal tuo punto di vista, una qualche forma di potere del linguaggio poetico sulla realtà?
A.F.P. – Dipende da cosa intendiamo per realtà, che riesco a immaginare una solo in termini generalissimamente ontologici (forse, e con insicurezze, per mera e del tutto scalfibile intuizione). Se possiamo pensarci – come dovremmo – agenti all’interno della/e realtà, credo che alcune cose siano da proteggere e altre no. Gli uccelli del paradiso sono da proteggere, il lucro sul mercato immobiliare no. Forse anche a proposito della realtà ragiono in termini di layer, o di assemblaggi, per dirla con Latour, che costruiamo di volta in volta per studiare determinati aspetti della “realtà”. Visto che si tratta di costruzioni e di azioni, il linguaggio certamente ha la sua parte, ma anche i suoi limiti. La sua parte, nell’assemblaggio sociologico: all’interno della società dello spettacolo, è risaputo che il linguaggio ha un ruolo persuasivo determinante, e perciò un uso non retorico, eversivo, disobbediente, concentrato, opaco, del linguaggio è già di per sé, come gesto, un contropotere importante. Trovo tuttavia un po’ ottimista – e intellettualistica – l’idea che dal linguaggio si arrivi così facilmente all’incisione sul mondo materiale. Forse in questo sono un marxista basic, ma mi sembra che la condizione materiale, quella che una volta si chiamava la struttura, abbia l’ultima voce in capitolo. Ergo: il linguaggio, e quindi anche il linguaggio poetico, ha la sua incisività sul reale fino a un certo livello, poi non basta. Serve altro. Da questo punto di vista, trasversalmente, forse sì, il linguaggio allora testimonia – non però, come la tradizione spesso vorrebbe, l’esperienza speciale e trans-storica del poeta. Il poeta non fa esperienze speciali in quanto persona, non ha particolari coraggi, è un Pokémon di tipo normale. Ha appreso, questo sì, una certa abilità ad addensare il linguaggio, piegarlo, vederlo con una concentrazione e meditazioni particolari, e questo gli dà forse una scorciatoia a un certo modo di approcciarsi al reale (scorciatoia però solo possibile e non sempre imboccata, anzi: mi sembra che i poeti in quanto persone siano perfettamente indistinguibili, ad esempio nei protagonismi e nei carrierismi, da tutti gli altri). Se la scrittura è testimonianza allora lo è proprio delle fratture, e della porosità cui dicevamo prima, dei livelli che si intersecano, di me che sono un «io», qualche volta, ma sono anche un corpo in via di decomposizione, uno sfruttato, un traditore, un bugiardo, un amante, un numero, un oggetto, un enunciato, un nevrotico.
S.P. Per convocare un altro interessante pensatore del secolo scorso, c’è un passaggio di Essere e tempo in cui Heidegger utilizza il termine cura per descrivere il modo in cui l’essere umano si relaziona al mondo, agli altri esseri e a se stesso. L’aver cura è il modo in cui l’uomo, in una modalità di esserci che Heidegger definisce ‘autentica’, si fa carico del proprio essere e del suo rapporto col mondo. Esiste, secondo te, una relazione tra poesia e cura? Eventualmente, quale accezione restituisci a questo termine nel suo rapporto col fare poetico?
A.F.P. – Ho con Heidegger un rapporto un po’ litigioso. Ricordo che leggere Essere e tempo mi divertì molto, perché è un testo di grande architettura e intelligenza, e anche solo in termini cognitivi studiarlo è un bene. Per contro, credo che la sua filosofia abbia fatto molti danni, almeno nelle vulgate. Prima vulgata: l’idea che esista un’autenticità solida e compatta opposta a una altrettanto compatta non autenticità della vita. I rischi di auto-elezione a partire da qui sono evidenti, un ritorno al cor gentile. Detto questo, più in generale, credo che l’aver cura sia un valore. Magari, diversamente da Heidegger (o dalla sua versione bignami), tendo a dargli più un valore trasformativo che conservativo, aver cura nell’ottica di superare questa miseria che siamo costretti a vedere (e a subire). Al contrario, mi sembra che la cura (latamente) heideggeriana venga spesso impiegata, ancora, alla stregua di un marchio: ho cura, quindi sono salvo. Mi chiedo se questa sia davvero una forma di cura, e non solo un lavaggio della coscienza. Perché oltre alla cura ci sono i presupposti della cura, nonché della miseria: dimensioni cioè che trascendono l’individuo e lo condizionano a prescindere dalla sua capacità individuale di dedicarsi alla cura. Con queste dimensioni non intendo la caduta dell’Eden, bensì, più prosaicamente, il fatto di non aver scelto di appartenere alla frangia degli sfruttati e di dover lavorare per (soprav)vivere. Quale cura risolve questo strato così infossato nelle maglie della storia? Ripeto, credo che l’autenticità sia idealmente un valore, come forma di indipendenza etica, ma anche una facile illusione, almeno da un certo punto di vista – l’illusione che l’azione individuale prescinda dalla conformazione di ciò che attornia e penetra l’individuo. Per queste ragioni tendo a scindere etica e poesia. La poesia è una specie di indagine, che ha la sua ripercussione emotiva (anche se il senso comune associa solo la commozione e il languore all’emotività poetica, mentre il suo raggio è decisamente più ampio), e in quanto forma complessa e intimamente conflittuale può di certo coinvolgere l’etica, quindi la cura, il problema della cura, come tema o istanza. Questo non significa che scrivere poesia è di per sé un gesto morale, o di cura. Torniamo appunto all’auto-elezione. La realtà dei fatti dimostra che essere un/una poeta non ti rende esente – quale sia il lato – dalle sopraffazioni con cui la suddetta miseria si riproduce.
S.P. Tornando a parlare di ‘messa in forma’, come concepisci il rapporto tra poesia e altre arti? Questo tema ha toccato la tua ricerca? Pensi possa esistere un linguaggio inclusivo che non imponga confini all’espressione ma, al contrario, lavori sulla ridefinizione stessa del limite?
A.F.P. – Ritengo che sia un rapporto molto rilevante. Intanto da un punto di vista culturale: è storicamente ravvisabile come la commistione tra le arti funzioni da volano e apripista. Ecco, credo che l’arrancare della poesia italiana sia anche dovuto a questo scarso sguardo (anche solo sguardo) alle altre arti. Poi c’è una ragione di ricerca estetica ed espressiva: l’intermedialità rappresenta un multiverso di possibilità ulteriori che è, semplicemente, divertente esplorare. Io l’ho fatto e lo faccio da dilettante, senza nessuna pretesa, ma con la serissima volontà di testare i limiti della scrittura, per poi tornare a quella con una consapevolezza diversa. Un esempio è quello della scrittura asemica, che frequento per puro divertissement, ma che mi dà contezza della natura grafica e gutenberghiana della scrittura, aspetto direi poco accentato dalla nostra tradizione. Infrangere il segno grafico sprigiona un’energia completamente diversa da quella che può scatenare qualsiasi altra infrazione (sintattica, psichica, lessicale, di genere…) che si può provocare in poesia, perché ne mina il costituente fondamentale, ovvero l’alfabeto. In altri casi invece mi è interessato provare a far interagire scrittura e suono. È stato così per vari test di sound poems, nonché per spore, un mio progetto iniziato nel 2021 che parte dal cut-up ma lo riarticola sotto varie vesti, tra cui l’installazione, la performance, il sound poem e – tra qualche mese – il libro di carta.
S.P. Per concludere, vorrei proporti un’altra stimolante provocazione che Wittgenstein lascia alle pagine dei suoi Pensieri diversi: «io non devo essere nient’altro che lo specchio nel quale il mio lettore veda il proprio pensiero con tutte le sue deformità e riesca poi, grazie a tale aiuto, a metterlo a posto». A quale ipotetico rapporto col lettore senti di acconsentire attraverso la tua poetica?
A.F.P. – Mi piace la citazione di Wittgenstein, ma fino a «deformità». Mi piace cioè che il testo (più che l’autore) possa essere uno specchio deformato, qualcosa in cui si entra riconoscendosi ma solo in parte, esperendo questo disorientamento dato da identificazione + straniamento. Forse, in modi e misure diverse, nella mia scrittura succede proprio questo, almeno in quella che gioca con la prima persona (ad esempio bottom text, la mia parte di XVI Quaderno, e alcuni testi de Lo spettro visibile, per quanto riguarda la poesia, e Tranquillità assoluta per la narrativa). Altre mie cose hanno invece natura più installativa e seriale (on land, soluzioni per ambienti), e quindi magari rafforzano la parte deformante e straniante, senza però – credo – che il lettore venga espulso dal testo. Concordo, in fondo: si tratta di rendere lo spazio testuale abitabile (quindi no spiegoni, no moralizzazioni, no retorica) ma anche deviante, spiazzante, nuovo, challenging. Significativo, insomma. Che questo poi sia per il lettore un aiuto non lo so, e una “messa a posto” non lo spero. È una cosa. Che mi sembra già tanto nell’indotta vacuità di molta esperienza contemporanea del mondo.
Nota. Il titolo della rubrica è la rivisitazione di un verso tratto alla poesia La partenza, di Franco Fortini.
* * *
da bottom text
inserito in Poesia contemporanea. Sedicesimo quaderno italiano(marcos y marcos, 2023)
*
Sfere metalliche in volo
Ho un’immagine che mi sono costruito da solo:
sono delle sfere di metallo
grandi, sospese
venti metri sulla zona coltivata.
Le vedo – nel pensiero – salendo
sul bus che costeggia il Piave.
Il Veneto si presta a scavare allegorie
di questo tipo nel cielo – ad esempio
il tramonto qui è cianotico,
blu-viola, basso, cloud, robe del genere.
Oppure i tralicci dell’Enel che svettano sul grano
ancora non uscito mi danno le idee
di segnali captati dall’altrove, messi a terra
e convertiti in acciaio.
Allora approfitto della situazione e moltiplico
le sfere contro la capacità
della corteccia cerebrale. Alla fine
ne faccio seimila; io e l’autista
ci inoltriamo fino alla gola
e niente è più traccia di niente.
*
Spirito Android
Da anni ripeto che Dio arriverà
nella vecchiaia, come un placebo
per la fine che si approssima
o per una sincera adesione al progetto
cristiano – può darsi.
Ma con la grande rivoluzione Android
qualcosa è cambiato nelle mie convinzioni:
il completo controllo del sistema,
l’interfaccia liquido e intuitivo,
questa facilità di ottenere una guida.
Oggi io come tanti
seleziono un tragitto sulla mappa
e una voce di donna suona nella mia coscienza
la cosa più simile all’Apocalisse.
da on land (Prufrock Spa, 2024)
*
41.967444, 12.797194
Accedendo, al margine della città, allo scheletro della cartiera, si può camminare in uno spazio diverso. Azioni che si danno per scontate, come procedere in piano, afferrare oggetti, scivolare tra due stanze contigue, sono qui compromesse. D’altra parte, eventi quali recidersi il palmo con un fondo di bottiglia o seguire un corridoio mozzarsi e dispiegare, nel quadrato, l’area boschiva, favoriscono relazioni nuove tra l’individuo e il suo rifugio. Logica che, se accolta, fa generare in ogni corridoio finestre vegetali, reinquadramenti del percorso, modalità avverse. Ecco perché sforzarsi di ricordare e il tentativo ripetuto di raggiungere un secondo livello sono la stessa esperienza. L’abbandono ha prodotto questo risultato. Lo stabile un tempo era una fabbrica e ora si viene abbandonati, entrando.
*
41.952694, 12.818194
Per una strada che dai treni entra nel bosco, nella ghiaia, si arriva alla centrale idroelettrica. In quel punto il fiume si allarga e il primo segnale di abitazioni si nota oltre la scarpata. L’edificio è giallo e intatto, e sulla parte alta i vetri circolari lasciano intuire un interno, lo spazio per qualcosa, a cui non si può assistere. Questo divieto, più l’isolamento del luogo, danno all’edificio un’aura. Di conseguenza l’aspettativa è che un lavorio ne riempia le sale, e che matasse di energia si condensino al centro della stanza prendendo la forma di una nuvola, un globo, una scarica centripeta. Che il passaggio da acqua a corrente, da materia a velocità, brilli nel vuoto dell’impianto, trovi giuste fibre nell’aria, poi tramite i cavi raggiunga le residenze. Imbattendosi nella centrale idroelettrica, si possono proseguire ragionamenti sull’innocenza di ciò che si trasforma, sulla natura della quiete.
* * *
Antonio Francesco Perozzi: Antonio Francesco Perozzi (Subiaco, 1994) vive in provincia di Roma e insegna nella scuola secondaria. Ha pubblicato Lo spettro visibile (Arcipelago Itaca, 2022), bottom text (in Poesia contemporanea. Sedicesimo quaderno italiano, marcos y marcos, 2023), soluzioni per ambienti (Zacinto, 2024), on land (Edizioni Prufrock Spa, 2024) e Tranquillità assoluta (Pidgin, 2025). Collabora o ha collaborato con varie riviste tra cui Il Tascabile, Le parole e le cose, La Balena Bianca, lay0ut magazine, Polisemie, Poesia del nostro tempo, Grado Zero, Inverso. Cura il blog La morte per acqua e il podcast Spara Jurij.
Silvia Patrizio nasce a Pavia nel 1981. Dopo il liceo classico si laurea in filosofia, specializzandosi successivamente in filosofie del subcontinente indiano e lingua sanscrita. ‘Smentire il bianco’ (Arcipelagoitaca, 2023), la sua prima raccolta poetica, con prefazione di Andrea De Alberti e postfazione di Davide Ferrari, vince la III edizione del premio nazionale Versante ripido (2024) e il primo premio assoluto alla XVI edizione del premio nazionale Sygla – Chiaramonte Gulfi (2024), classificandosi anche al primo posto nella sezione poesia edita del medesimo premio. La silloge ha ricevuto, inoltre, una segnalazione ai premi nazionali Lorenzo Montano 2023 e Bologna in Lettere 2023 ed è risultata tra i finalisti del premio Pagliarani 2024. Suoi testi compaiono su diversi lit-blog e riviste, sia cartacee che online, tra cui L’anello critico 2023 (Capire Edizioni, 2024); Metaphorica – Semestrale di poesia (Edizioni Efesto, 2024); Gradiva – International Journal of Italian Poetry (Olschki Edizioni, 2023); Officina Poesia Nuovi Argomenti (2023); Inverso – Giornale di poesia (2023); Universo Poesia – Strisciarossa (2023). Fa parte della redazione della rivista Atelier Online.
Tutte le sue passioni stanno nei dintorni della poesia.
* * *
© Foto di proprietà di Riccardo Frolloni.