June Scialpi, “La condotta del simbionte” (La Collana Isola, 2023)

A cura di Luca Cenacchi

Immaginario della contaminazione: simbiogenesi e xenofemminismo come metafora della transness

 

La Condotta del simbionte è la plaquette di June Scialpi con disegni di Majid Bita e pubblicata su Isola, progetto curato da Mariagiorgia Ulbar e Andrea Bruno. Qui l’autrice prosegue e rinnova il discorso mostruoso iniziato col Golem (Fallone, 2022) e approfondisce la transness in un anti-canzoniere che connette il tema del doppio alle istanze xenofemministe: pertanto Dottor Jeckyl e Mr Hyde (Stevenson) incontra Donna Haraway e lo Xenofemminismo (Helen Hester). Questa plaquette, alla dinamica in versi io/corpo (o sarebbe meglio dire materialità?), ne incapsula una seconda, in prosa, mettendo in scena il dialogo interiore di un io divelto che va riconfigurandosi.

 

I. Dr June e Mrs Scialpi

 

Primo indizio di questa complementarità tematica la troviamo nella strofa finale del primo componimento. Il simbionte genera una crisi, cui segue, nella poesia immediatamente successiva, la rabbia dolorosa che spaventa il sistema, il corpo, a morte:

 

«Segue un’esca per nascondersi. Una
macchia si forma sulla superficie dell’altro
in risposta – allora reagisce, si dimena.
Cessa la crisi quando tutto combacia. Essere
la stessa cosa non è mai stato così semplice.»

 

*

 

«La rabbia è la notizia successiva
un’àncora aperta alla fine dei muscoli
gettata attraverso l’epidermide contro
l’altra pelle nascosta. Quando raggiunge
l’innervatura lascia che il confronto sia
brutale, che spaventi il sistema a morte. Le ramificazioni
non conoscono riposo, il lavoro sottostante
è un moto perpetuo – eppure anche quelle
bloccano il flusso sconvolte da tanta espressione violenta.
Avrebbero preferito scoprirla per natura
dialettica, un giorno come un altro, venire fuori
dalla bocca come una storia.»

 

Tali elementi sono i caratteri testuali di continuità che legittimano il confronto tra la rappresentazione di Scialpi e la prima apparizione di Hyde: infatti egli  emerge con una «revulsione fisica»[1]. Questo è evidente nella sezione del romanzo titolata Henry Jekyll’s full case dove la crisi della metamorfosi, generata dal composto, quindi da un agente esterno, viene descritta a livello somatico non solo come nausea mortale, ma anche come sfregamento dentro l’ossa e orrore dello spirito: «The most racking pangs succeeded: a grinding in the bones, deadly nausea, and a horror of the spirit that cannot be exceeded at the hour of birth or death.  Then these agonies began swiftly to subside[…]. There was something strange in my sensations, something indescribably and new and, from its very novelty, incredibly sweet. I felt younger, lighter, happier in my body[…]»[2]

Il processo descritto da Scialpi, però, è di esiti e natura differente: non una dissoluzione graduale dell’ospite quanto una tensione all’amalgama, un processo di coabitazione, risolventesi nella «fitta della conferma» finale; un’olobionte[3] affiancato da inquietudini sotterranee e telluriche: questa figuralità in particolare deriva dalla passione di June per la geologia, che richiama inevitabilmente un immaginario postumano. Oltre questo la natura dell’agente alieno pone una variabile interpretativa ulteriore: esso è un’alterità assoluta e non mero reagente, come in Stevenson, che catalizza l’evento. I simbionti, invece, co-occorrono con l’ospite a generare l’entità risultante dal processo simpoetico, ovvero: « sistemi che producono in maniera collettiva, che non hanno confini spaziali o temporali autodefiniti. L’informazione e il controllo sono distribuiti tra i componenti. Sistemi evolutivi che possono generare cambiamenti sorprendenti»[4]. Lo spazio letterario e teoretico richiamato dall’organismo, quindi, proietta il processo metamorfico nella contaminazione, nella relazione (o hackeraggio) ed è proprio questa peculiarità a essere terreno fertile per l’innesto di un immaginario capace di percorrere Staying With the Trouble: Making Kin in the Chthulucene (Donna Haraway, 2016) e Xenofemminismo nel respiro di poche pagine.

 

II. Domina ex machina aut tellure?

 

Le poesie che seguono accompagnato gradualmente il lettore attraverso una moltiplicazione delle prospettive: organico, geologico e tecnologico sempre più vengono amalgamati  mediante sapienti sovrapposizioni semantiche. L’autrice sceglie accuratamente un piccolo bacino lessicale omografo e omofono appartenente a questi ambiti su cui fare perno per tenere insieme figuratività differenti: parole come matrice, sistema, placca, infatti, hanno tutte corrispettivi nelle varie discipline. Da questa base si diramano, poi, le parole proprie dell’uno o dell’altro immaginario con una preponderanza della geologia, quindi troveremo: sedimentazione, impianto, membrana, innervatura etc…

L’obbiettivo, come già anticipato, è quello di portare alla luce la dimensione relazionale dell’organismo in cui la somma delle parti, cioè l’organismo tout court, è il risultato dell’inter-azione delle stesse generando pertanto un sistema evolutivo prodotto collettivamente:

 

«Il sistema risponde alla matrice, fa
affidamento a risposte semplici – più
grande la somma delle parti stesse.
Viene legato senza preavviso
al suono che riconosce. Il flusso dei
sensi ora è una ressa – e non questo
avere paura di cosa. Curarsi di ciò che
vive dentro. Programma una simmetria.
Per te va bene?»

 

Le particolari prospettive finora richiamate traspongono sul piano letterario la simbiogenesi; esso è un principio basato sul concetto di sym-poiesis ( ovvero fare-con) della Haraway, il quale, sussume e supera la prospettiva  auto-costruttivista implicita nell’auto-poiesi: «Simpoiesi è una parola semplice, significa «fare-con». nulla si crea da solo, niente è davvero auto-poietico o auto-organizzato. Come dice Never Alone, il gioco-mondo creato dagli Inupiat di cui parlerò più avanti, i terrestri non sono mai da soli. È questa l’implicazione radicale della simpoiesi.

Simpoesi è la parola più adatta per indicare i sistemi storici complessi, dinamici, reattivi, situati. È una parola che ci permette di mondeggiare in compagnia. La simpoiesi avvolge l’autopoiesi, la srotola e la estende in maniera generativa»[5].

Le immagini presenti all’interno della raccolta, così come quella precedente (Golem, Fallone, 2022),  prospeguono la tendenza di Scialpi a proporre corporalità nuova e non connotata secondo la dicotomia del binarismo di genere. Questa scelta, la quale proietta la poesia dell’autrice in una dimensione politica, persegue la prospettiva abolizionista xenofemminista mirante a decostruire il binarismo attraverso la moltiplicazione delle prospettive come afferma la Hester, riportata qui nella traduzione di Clara Ciccioni:

 

«l’espressione «abolizionismo del genere» rischia di essere percepita come una pretese di eliminare il genere, di abolire la differenza stessa. Non è affatto quello che sosteniamo. Lo xenofemminismo […] non vuole «eradicare quelli che sono attualmente considerati i ‘tratti di genere’ della popolazione umana».[…] Semmai sono le limitazioni all’identità di genere che vogliamo demolire; l’ostinato pensiero binario che continua a coinvolgere le identità nel maschio e nella femmine, nel femminile e nel maschile, malgrado la palese insufficenza di questo modello. Anzichè produrre un mondo senza genere, quindi, questa forma di abolizionismo attraverso la proliferazione evoca un mondo in cui il genere si moltiplica.»[6]

 

Questa compagine teorica getta una visione retrospettiva fondamentale per inquadrare il presente lavoro e rielaborare quanto si è scritto sui precedenti. Alla luce di ciò mi pare coerente affermare che la transness sia quello spazio identitario generato dalla interazione di molteplici fattori concorrenti a formarla. In questo procedimento la coscienza non è più- se mai lo fosse stato – motore primo che cerca di inverare la propria visione, ma componente co-occorrente nell’intero processo rappresentato da uno scontro, tellurico e lacerante, delle parti:  le immagini presenti nella plaquette  mettono in risalto, quindi, i meccanismi interni di una biomacchina come risultato dell’hackeraggio del simbionte, i quali rispecchiano anche agitazioni emotive provate dall’autrice lungo il suo percorso.

 

(i.iiiii)

«Dalle 5 alle 6 del pomeriggio capita che l’apparato
si scompensi e l’innervatura ceda.
Avviene uno slittamento come sopra a un nastro.
Un umore viene barattato col suo
opposto, una placca scorre sull’altra, un’altra ancora
si scontra in un incidente a
rallentatore. Si formano sollevamenti. Le prominenze
servono a calcolare la fine di una
crisi, la misura in gradi delle pieghe accartocciate, spinte
nelle sue profondità incandescenti
dove tutto viene riciclato. Frantumandosi permette che respiri.»[7]

 

III. Le prose: riconfigurazione e autocoscienza

 

La plaquette e il discorso, tuttavia, non si concludono qui e c’è ancora qualcosa da dire. La serie di prose   vengono incapsulate nella stessa pagina sotto le poesie. Le forme si moltiplicano, come gli stilemi: alle descrizioni tecniche delle poesie, parallelamente, si sviluppa l’itinerario di un’interiorità che percorre la presa di coscienza di sé e consegna al lettore i moti di una graduale riconfigurazione, scandita entro le fasi della propria esistenza: ad una metamorfosi esteriore ne corrisponderà una intima? Il discorso amoroso – così io interpreto l’epilogo finale- diviene un momento di autocoscienza.

Il principio è quello della separazione:

 

«Il presidio drammaturgico e scenografico ha una ricca vicenda di riconfigurazioni. Alla base della parola c’è soprattutto il concetto di separazione.».

 

Una separazione tra io e bambino, tra passato e presente su cui l’autrice ritorna, forse, con qualche accento di rimorso. A tratti pare riscontrare il rammarico di non aver potuto far avvalere il bambino della sua consapevolezza; il desiderio di invertire il processo per restituire una sua prefigurazione  di sé – un’orma nell’orma- permettendogli così, forse, di mettere ordine: la consapevolezza di avere il tenero segreto delle conchiglie.

 

«Così in casa tua guardo i segni sul muro che attestano lo sviluppo: io nascevo e tu ti alzavi come su due zampe. Vorrei invertire questo processo solo per te: darti l’indizio fossile che ti avrebbe detto che sarei stata qui in-avvenire, a lasciare tracce dove sei stato bambino – a muovermi in mezzo alle tue conchiglie senza percepire differenze strutturali tra loro e noi.»

 

Poi venne il cambiamento, la consapevolezza. Infine il discorso amoroso finale, dove si decide di prescindere dal possesso ricodificando criticamente il discorso innestando la propria prospettiva. Rifiutare il possesso significa rifiutare l’oggettificazione di sé: pare che Scialpi osservi quasi che esso possa avere unicamente conseguenze reificanti sia quando esercitato su altri, sia quando lo è su di sé. Al paradigma del possesso, allora, l’autrice sostituirà l’inappartenza e con essa abbraccerà la possibilità di liberarsi. Questa dinamica di possesso-perdita o possesso-liberazione pare una rielaborazione dell’autrice del medesimo concetto forsteriano: infatti, come evidenzia bene Gian Pietro Leonardi di cui riporterò la traduzione, attribuendo queste parole a Dante, l’autore inglese scriveva: « ma non abbiamo ancora imparato a gestire correttamente il nostro materialismo e la nostra carnalità; sono ancora intrecciati con il desiderio di possesso, e – per dirla con Dante – “ il possesso è tutt’uno con la perdita”»[8].

«Nessuno saprà lo stare sveglia che ho speso appresso al pensiero di essere una cosa come a possederla. Privandola di tutto. Fa paura non credi? Eppure quanto è bello che possa non essere così. Che il mondo è pieno di cose che non mi appartengono e tu sia tra queste.»

 

Luca Cenacchi

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June Scialpi (1998) è laureata in Discipline dello Spettacolo e della Comunicazione. Si interessa di studi queer e transfemminismo. Alcuni suoi testi sono apparsi sul numero 102 della rivista «Atelier». Inediti più recedenti sono stati inclusi nell’antologia I cieli della preistoria. Antologia della nuovissima poesia pugliese (Marco Saya edizioni 2022). Carne Incognita (Ensemble 2019), pubblicato sotto un precedente deadname, è il suo esordio in poesia.

 

Luca Cenacchi principalmente si occupa di critica letteraria  con particolare interesse verso la poesia queer italiana. ha collaborato con varie riviste online e cartacee tra  cui: Argoonline, Poetarum Silva, Atelier (cartaceo),Niederngasse, FaraPoesia e altri. Ha collaborato con diverse case editrici, per cui ha firmato prefazioni e interventi,tra cui: Oedipus, Atelier, Fara editore e Tempo al Libro. è stato giurato presso vari concorsi letterari tra cui Bologna in Lettere (Dislivelli 2018). Attualmente collabora con il collettivo forlivese Candischi  con cui organizza presentazioni di poesia.

 

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[1] Francesca Giro, Gaetano Pagano, Mostrumana l’umanità del mostruoso la mostruosità dell’umano, Effequ Firenze 2022 p. 113

[2] Robert L. Stevenson, The strange case of Dr jekyll and Mr Hyde, Giunti editore Firenze 2001 p. 78

[3] Donna Haraway, Chtulucene, sopravvivere su un pianeta infetto, trad it. Claudia Durastanti, Clara Ciccioni, Nero, Roma 2019 pp. 89-92

[4]  Ivi. p. 92

[5] Donna Haraway, Chtulucene, sopravvivere su un pianeta infetto, trad it. Claudia Durastanti, Claudia Ciccioni, Nero, Roma 2019 p. 89

[6] Helen Hester, Xenofemminismo, Trad. It. Clara Ciccioni, Nero Roma 2018 p. 37

[8] G.P. Leonardi, l’Eroe rinnegato: Maurice e Alec, ieri e oggi, in , G. P. Leonardi, L. Malorda ( a cura di), Espressione e nascondimento identitario in letteratura e nel cinema, (Giornata di studi) a cinquantanni dalla pubblicazione di Maurice di Forster, Mimesis, Milano p. 38