Claudio Pasi è nato a Molinella (Bologna) nel 1958. Vive a Camposampiero, in provincia di Padova. Ha pubblicato le raccolte poetiche In linea d’ombra (Niemandswort, 1982), La casa che brucia (Book Editore, 1993), Osservazioni / Observations, traduzione di Tim Smith e Marco Sonzogni (Wellington NZ, Seraph Press, 2016), Nomi propri (Amos, 2018), Ad ogni umano sguardo, con prefazione di Alessandro Fo (Aragno, 2019). Ha collaborato a «Poesia», a «Testo a fronte» e ad altre riviste con traduzioni da poeti antichi e moderni. Fresco di stampa il volume di poesie in dialetto bolognese dal titolo Ad cô dal vièl / In fondo al viale (Ronzani, 2021).
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MB – Nel tuo ultimo libro Ad ogni umano sguardo (Aragno, 2019), prima ancora del testo delle poesie, il lettore si imbatte nella rappresentazione cartografica del territorio di Ferrara, precisamente nella Corographia dello stato di Ferrara del 1603 di Giovanni Battista Aleotti. L’importanza di questa carta per te è anche rimarcata dalla sua traduzione in versi (quasi un’ecfrasi, se vogliamo) in una poesia poche pagine più avanti. Il territorio sembra rivestire un ruolo fondamentale, diventando quasi il personaggio principale del libro, lo sfondo silenzioso che tu porti in primo piano. È così? Potresti approfondire questo aspetto?
CP – In realtà, quando, ormai parecchi anni fa, misi insieme quei versi, avrei avuto l’intenzione – invero un po’ campanilistica – di riferirmi ad una qualche mappa della Bassa bolognese, che però al tempo non era nella mia disponibilità. La scelta della carta dell’Aleotti si dimostrò poi, tutto sommato, più opportuna, perché illustra l’intera pianura orientale emiliano-romagnola, quella racchiusa nei confini indicati dal verso del Purgatorio posto in esergo al volume: “tra ’Po e ’l monte e la marina e ’l Reno”. Sì, è vero, il territorio, quel territorio, che è dove sono nato, è lo sfondo del libro, lo scenario dentro il quale si muovono figure vere o verosimili, per un istante riaffiorate dall’oblio, sospinte da un loro vano ed incomprensibile agire: sono le “effimere comparse della storia”, come in una poesia le ho chiamate. Ma forse questa frammentaria ricostruzione non sarebbe avvenuta, se io non mi fossi, già da decenni, trasferito da quei luoghi, se la mia vita ora non fosse altrove. E forse è proprio da questa distanza di spazio e di tempo che poi è sopraggiunta la poesia. Allora, forse più che da un luogo, si potrebbe dire che la poesia nasce proprio dalla distanza da un luogo. E non solo le poesie di questa raccolta, ma la poesia in genere. Gli esempi in merito sarebbero infiniti.
MB – Continuando su un tema affine a quello della prima domanda, ovvero sulla rappresentazione visiva e sulla raffigurazione pittorica del mondo, il tuo libro è ricco di pitture, affreschi, cartoline, fotografie, biografie di pittori etc… anche solo a guardare i titoli di molti testi. Sembra esserci una stretta relazione tra poesia e medium visivo. Come vedi questo rapporto?
CP – Di sicuro riconosco in me una certa propensione all’ecfrasi, come d’altronde tu hai già evidenziato. Sarà magari per un desiderio di rallentare illusoriamente il flusso del tempo, di dilatarlo fino a giungere ad una sorta di immobilità, a un fermo-immagine che permetta di trascorrere i dettagli delle cose, di entrare al loro interno, di svelarle. Il fatto è che poi l’oggetto e la sua rappresentazione spesso vengono a coincidere, si sovrappongono, si confondono. Come in quella poesia dove il racconto di una battaglia del tardo medioevo, riportato nei minimi particolari da una cronaca del tempo, viene incrociato con la descrizione di un successivo affresco che illustra il medesimo evento. In tal modo la cosa e la sua immagine visiva diventano un tutt’uno, e con esse la parola che le comprende.
MB – La cosa che forse più seduce e ammalia del tuo libro è la penetrante capacità archeologica con cui tu entri nel tuo territorio, nella sua (che è anche tua) storia, cercando di rimuovere la polvere sedimentata nei secoli per estrarre frammenti e materiali a cui ridare voce. Mi viene in mente, per visualizzare il tuo lavoro, quella poesia in cui descrivi una battaglia del 1467 raffigurata in un affresco: “lance ed elmi / spezzati, che ancora oggi i contadini / quando arano riportano alla luce”. Anche se questa archeologia non rifugge un certo tratto erudito (alcuni titoli bastano da esempio: Assalto alla torre dei cavalli, il primo agosto del 1296, Un caso di cronaca del settembre 1461, La raccolta della canapa nel 1741…fino al geniale Affondamento di una biblioteca nel 1940), la grande pietas che Alessandro Fo riconosce nella prefazione al tuo libro è avvertibile in pieno. Si potrebbe tracciare un’equivalenza tra erudizione e amore per il transeunte (“il tempo nostro è un transito di ombre”); sei d’accordo?
CP – “Capacità archeologica” non sta a me dirlo; senza dubbio c’è nel libro la volontà di riportare alla luce e di celebrare, per un istante a chi legge o anche a me solo, certi avvenimenti che caratterizzano il passato di quel territorio, scomparsi ormai persino dalla memoria degli stessi abitanti. In effetti molte di queste poesie attingono ad accurati e marginalissimi studi di storia locale, magari ripresi in maniera parziale o libera, come del resto la letteratura esige. Al contrario, l’erudizione, nel significato di un complesso di aride nozioni e di conoscenze asettiche, direi che rimane piuttosto estranea al libro. Compare semmai, con quei riferimenti a documenti e personaggi poco noti, come mero pretesto per illustrare il tema della caducità, del transeunte appunto: eventi minori, episodi di scarsa rilevanza, fuggevoli apparizioni, diventano raffigurazioni simboliche del tempo irreparabile, della vanitas che tutto avvolge nella sua vertigine. È a loro che si rivolge la pietas che Alessandro Fo ha rilevato, e che consiste nel riconoscere negli altri il dolente sentimento dell’esistenza e di condividerlo, anche nella distanza dello spazio e del tempo.
MB – La precedente domanda mi porta a questa; l’amore verso la caducità si traduce (specie nella seconda parte del libro, quella “novecentesca”) nell’atto della nominazione. In una poesia intitolata L’età dei nomi, 1960 (tu, in quell’anno, avevi due anni) ti rappresenti mentre ripeti le prime parole del mondo esterno: “Alcuni veri nomi sono: / l’albero / […] il gatto / […] l’armadio / […] la scala / […] la radio / […] la camicia / […] un’ombra”. L’accostamento con il Rilke delle IX Elegia è venuto spontaneo; anche lì si nominava (“Siamo qui forse per dire: casa / ponte, fontana, porta, brocca, albero da frutto, finestra”), ma quest’atto era destinato a trasportare il nominato in una zona invisibile, intermedia tra morte e vita. La tua nominazione (e penso, in questo, anche al tuo precedenti Nomi propri, Amos, 2016) mi sembra diversa, meno incline a una resurrezione del nominato nell’invisibile della parola e improntata invece a una dettagliata riproduzione calligrafica sulla pagina (“Infine, stanca, trovati un riparo / nel fondo di un cassetto o tra le pagine / di un libro o accanto a un fiore bianco e viola / d’erbaspagna, canzone, e là rimani”). Il compito mi pare meno sacrale, se vogliamo, più umile, amanuense, ma non per questo meno arduo. Sei d’accordo?
CP – Non penso che ci sia in questo libro un particolare “amore” per la caducità, ma piuttosto una pacata e rassegnata accettazione di ciò che è ineludibile. L’età dei nomi, 1960, con quello smaccato titolo proustiano, parla piuttosto della scoperta del linguaggio, delle parole che sono in grado di sostituirsi alle cose e magicamente le fanno sparire e poi magari apparire di nuovo. Il tuo riferimento a Rilke non mi è suonato estraneo, così mi sono andato a sfogliare un vecchio quaderno ed ho ritrovato, accanto al primo abbozzo della poesia, un appunto che dice: “cfr. El. duin. IX”. Francamente non saprei dire se di quei versi ho poi tenuto conto, so solo che, a rileggerli oggi, mi suonano oltremodo oscuri. La poesia L’età dei nomi è piuttosto un avvertimento sulla natura del linguaggio, poi ampiamente elusa nel libro, dove le parole non esistono mai per sé stesse, non accarezzano chissà quali oscurità metafisiche, ma restano sempre aderenti alla realtà, al visibile, alla concreta sostanza delle cose. Non a caso il primo e ancora provvisorio titolo era I veri nomi, poi sostituito da Ad ogni umano sguardo che è sì un omaggio a mio padre, ma ad un tempo è l’impegno nei confronti di una verità necessaria.
MB – La persona che dice io nel libro arriva molto tardi, intorno alla metà del testo. Prima, anche nei testi ambientati in età latina si parla semmai di noi. In questo alternarsi di voci e di cognomi, che fa parte del genere epico e che tu tratti in endecasillabi come se fosse un romanzo in versi, una saga familiare della famiglia Pasi e della sua patria, ci si immerge nel passato. Il futuro che ruolo gioca in tutto ciò?
CP – Effettivamente quando, sempre parecchio tempo fa, una volta affastellate le prime poesie, si è delineata una fisionomia complessiva, ho pensato di dover costruire un libro corale, dove quindi l’io lirico fosse quasi subordinato alle altre persone o quanto meno posto sul loro stesso piano, e a loro si rivolgesse chiedendo una sorta di conferma, di complicità, con domande quali: “Quello che è successo lo conosci anche tu”, “In quell’anno, lo sai…”, “Eravamo assieme, ti ricordi?”; frasi insomma del tipo “Tu che eri a Mylae con me, sulle navi!”. Sì, l’idea era quella di dar vita a una forma di epos, ma come esploso, di cui si fossero salvati solo pochi sparsi reperti, e dove le pur preponderanti vicende familiari apparissero comunque assorbite nel più generale destino di una comunità. Un romanzo in versi dunque, ma per frammenti, che potrà anche richiamare, non dico di no, La camera da letto di Bertolucci, senza tuttavia innalzare un nucleo familiare ad unico, esclusivo, talvolta altezzoso protagonista. Tra parentesi, a proposito di genere epico, ti posso dire che tengo nel cassetto il testo di un poemetto “industriale” che spero in tempi brevi di dare alle stampe. Tornando al libro, esso è senza alcun dubbio orientato verso passato, rammemorato e descritto così come si è inverato, senza lodi o rimpianti. Il futuro invece compare di rado, come il fato imponderabile che incombe sui ragazzi che assistono alla Manifestazione aerea del 1° maggio 1968 “ignari ancora / della vita futura che li attende / e a cui non sfuggiranno”, o come un auspicio di serenità affinché “non sia grave il passaggio per il mondo” alle Ragazze e ragazzi del ’99, i nati – tra cui mio figlio – proprio all’estremo limite del secolo e del millennio. Il futuro semmai riguarda loro, a me appartiene ormai sempre meno.