Dall’introduzione di Milo de Angelis:
Fin dalla prima antologia della nostra storia, quella di Meleagro di Gadara, la poesia rivela il suo doppio volto: storico da una parte e assoluto dall’altra. Da una parte appartiene a un foglio preciso del calendario, che la situa esattamente in quell’epoca e in quel giorno, dall’altra appartiene a un tempo selvaggio, imprendibile, che annienta ogni cronologia per diventare pura presenza. Meleagro, fedele all’etimo della parola “antologia”, chiamava l’opera di ogni poeta con il nome di un fiore e invitava segretamente i lettori a compiere un lungo viaggio nelle pianure, nelle vallate e nelle montagne per trovare il fiore più amato e contemplare la sua bellezza senza mai strapparlo al luogo in cui l’aveva visto, senza mai impedire agli altri viandanti di ammirarlo. Ebbene, gli autori di questa antologia – tre innamorati della poesia quali certamente noi siamo – hanno preso la stessa decisione: ciascuno ha scelto il proprio fiore, mostrandolo agli altri in tutto il suo splendore e lasciandolo intatto in un punto determinato del giardino storico e in un punto sconfinato del giardino senza tempo.
Così abbiamo cominciato a camminare nel Tredicesimo secolo della nostra epopea, quando i versi dei trovatori provenzali confluiscono alla corte di Federico II di Svevia e spargono i loro fiori nell’intera penisola, trasformando il castello del magnifico sovrano in una corte itinerante che presto raggiunge le città umbre e le città toscane: il sonetto, inventato da Iacopo da Lentini, invade Arezzo, Lucca, Pistoia, Todi, Perugia, Pisa, Firenze e mostra all’improvviso un’immagine dell’amore mai vista prima. L’eros greco e latino acquista con questi poeti – dolci e nuovi nel lessico, nel metro, nello stile – una formidabile ricchezza di chiaroscuri e sfumature, esplora luoghi inediti della passione, celebra il cuore “gentile” e la donna luminosa, lo sguardo nell’invisibile e l’oro dei capelli biondi, simbolo di una fulminea scalata al cielo, quelle “trezze bionde da le quai rilucièno/ d’aureo color li poggi d’ogni intorno” (Cino da Pistoia).
La donna non è più la mulier terrestre della lirica antica, la fascinosa Lesbia di Catullo o la volubile Cinzia di Properzio, bensì una creatura profondamente spirituale, immersa nel simbolo, un ponte per condurci all’Assoluto e al compimento supremo di noi stessi: il biondo dei suoi capelli è quello di una creatura colma di luce e verità. Perdere questa luce – ci insegna Francesco Petrarca – significa perdere il contatto con ciò che è eterno: “Erano i capei d’oro a l’aura sparsi/ che ’n mille dolci nodi gli avolgea,/ […] Non era l’andar suo cosa mortale,/ ma d’angelica forma; e le parole/ sonavan altro che pur voce umana”.
Quando la vecchiaia o la morte spengono la luce dei capelli biondi, non si spegne soltanto il fuoco della bellezza terrena, ma quello ben più essenziale del nostro destino. Sono innumerevoli in questo periodo le invocazioni alla Morte che, cancellando la luce femminile, ha raso al suolo le fondamenta del nostro essere, ha messo in questione il significato stesso della nostra venuta al mondo, come dice Giacomino Pugliese nella sua dichiarazione di guerra al Finito e come ripete tutto il Dolce Stil Novo, Dante compreso. “Quand’ella altrui saluta”. Attraverso il saluto della donna noi possiamo conquistare o perdere l’eterno. La donna così si separa definitivamente dal mondo classico e diventa custode dell’invisibile, luogo di un’estasi suprema ma anche di un’angoscia e di un turbamento che hanno in sé qualcosa di soprannaturale, un vero e proprio viaggio nel regno dei morti, come scrive l’eccelsa e drammatica penna di Guido Cavalcanti:
I’ vo come colui ch’è fuor di vita,
che pare, a chi lo sguarda, ch’omo sia
fatto di rame o di pietra o di legno,
che si conduca sol per maestria
e porti ne lo core una ferita
che sia, com’ egli è morto, aperto segno.
[…]
Milo De Angelis
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BARBARA TORELLI
(Montechiarugolo, Parma, 1475 ca. – Bologna, dopo il 1533)
Gentildonna dalla vita movimentata, Barbara Torelli andò in sposa al condottiero Ercole Bentivoglio. Fu, questo, un legame minato da sospetti e serpeggianti tradimenti: nel 1501 la Torelli fugge a Urbino, temendo che il marito miri a ucciderla. Amica di Isabella d’Este, frequentò, in tempi di selvagge battaglie tra principi e mercenari, le corti di Mantova e di Ferrara. Alla morte del Bentivoglio, Barbara fu libera di sposare Ercole Strozzi, letterato e confidente di Lucrezia Borgia, che frequentava da qualche anno e a cui aveva già dato un figlio. Lo Strozzi fu però assassinato, per strada, a Ferrara, poco dopo il matrimonio, con ventidue coltellate. Allo Strozzi è dedicato l’unico testo ascritto a Barbara Torelli, un sonetto tra i più noti dell’epoca. Quanto a lei, finì i suoi anni sepolta nell’anonimato, sopravvivendo ai figli.
Spenta è d’Amor la face, il dardo è rotto,
e l’arco e la faretra e ogni sua possa,
poi che ha Morte crudel la pianta scossa,
a la cui ombra cheta io dormia sotto.
Deh, perché non poss’io la breve fossa
seco entrar, dove l’ha il destin condotto,
colui che appena cinque giorni e otto
Amor legò pria de la gran percossa?
Vorrei col foco mio quel freddo ghiaccio
intepidire, e rimpastar col pianto
la polve, e ravvivarla a nuova vita:
e vorrei poscia, baldanzosa e ardita,
mostrarlo a lui, che ruppe il caro laccio,
e dirgli: Amor, mostro crudel, può tanto.
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PIERO BIGONGIARI
(Navacchio, Pisa, 1914 – Firenze, 1997)
La tempesta
Forse è questa l’ora di non vedere
se tutto è chiaro, forse questa è l’ora
ch’è solo di sé paga, ed il tuo incanto
divaga nell’inverno della terra,
nell’inferno dei segni da capire.
Ma non farti vedere dimostrare
ancora le tue formule, è finita
l’orgia dei risultati rispondenti
alle cause. Sei sola, batti i denti
accosto ai vetri nevicati, tetri.
Divergono in un morbido riaccendersi
d’altro sangue i destini che ci unirono.
Tu li ricordi come – in queste tarde
ore che riscoccano dalla pendola –
in un fuoco di tocchi, in un orrendo
scatenarsi, dai tuoi armadi, di bambole.
La nostra vita, catturata, vedi,
mentr’era armata solo di silenzio,
come dai parafulmini ridesti
da un lampo, trova il filo da seguire
per non morire restando se stessa.
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