Hart Crane e la pietra filosofale che preserva la «superstite bellezza»

Nota di Sarah Talita Silvestri; traduzione di Giovanni Ibello

Nota di Sarah Talita Silvestri

Hart Crane, il ragazzo ruggente, “roaring boy” come lo definì Malcolm Cowley, proteso nella ricerca di una resurrezione, nasce il 21 luglio del 1899 a Garrettsville, una città nello stato dell’Ohio, da una coppia assai infelice, che finirà per separarsi.
La sua esistenza, una trenodia del tragico atta a scandagliare i tempi presenti in cerca di «un’alchimia, la pietra filosofale che riesca a preservare la superstite bellezza dagli attacchi dei Filistei», si conclude nel Golfo del Messico: nell’aprile del 1932 si getta dal ponte di una nave.
Hart scompare nell’oceano, ma da oggi la sua memoria supera la tua /con lacrime d’estasi.
Harold era il suo nome di battesimo che aveva eclissato, facendosi chiamare col cognome della madre, così vicino a “heart”.
Un ragazzo reso vecchio dall’alcol, dalle pulsioni omosessuali (che cercava di reprimere), dagli amori falliti, dalla ricerca ossessiva di una propria individualità poetica tra desiderio di bellezza e trascendenza, che Harold Bloom definisce “orfica”.
Lui stesso la vuole “dionisiaca”, come chiarisce in una lettera, e infatti creatore e distruttore danzano uno accanto all’altro in For the marriage of Faustus and Helen, poemetto in tre sezioni inserito nella sua prima raccolta di liriche, intitolata White Buildings (“Bianchi edifici”, 1926), a cui appartiene “Stark major”.
In questa silloge l’estremo e mistico ricercatore, in dialogo continuo con T. S. Eliot, Whitman, coi romantici inglesi e i simbolisti francesi, fa erompere il suo bisogno di credere che ogni disfacimento non sia la fine di tutto, bensì il principio di una catarsi.
Nella sua dedizione assoluta all’arte considera la poesia come una forma di palingenesi «che egli seppe opporre anche alla sua personale corsa verso la distruzione».
Convinto che Eliot mancasse di visione, Crane rovescia le negazioni del poeta di The Waste Land per aprire un varco su una resurrezione in senso nietzschiano, che passa dall’accettazione della tragedia attraverso la distruzione.

Bibliografia

H. CRANE, White Buildings, Boni & Liveright 1926.
P. SPINUCCI, T. S. Eliot e Hart Crane, «Studi Americani», n. 11 (1965), pp. 215–252.

STARK MAJOR

Gemma di primavera,
com’è puntuale la morte dell’amante
con le rovine del sole che in qualche modo
prima del risveglio, ci trafigge.

Dopo l’agone dello splendore
non c’è ancora quella sobria e tiepida
sezione dell’aria che più acceca e a cui
le mani giunte replicheranno con il buio.

Ecco l’ora dell’addio
sotto il verde copriletto di seta
il suo carico di vita mai donata
giace lieto su di lei. Non è ancora dolore.

E lei si desterà prima del tuo arrivo
trafelato, ogni tre gradini lungo
la scala dove i passi si perdono attutiti,
un accenno di voce oltre la soglia.

Ti chiamerà per nome ridendo; mentre tu
ancora rispondi ai suoi sfiancati addii,
ritroverai la strada solo per vedere
le porte e la pietra con occhi piagati.

Cammina adesso, e annota la morte dell’amante.
Da oggi la sua memoria supera la tua
con lacrime d’estasi che mai potrai
sfiorare né condividere.

Traduzione di Giovanni Ibello

***

The lover’s death, how regular
With lifting spring and starker
Vestiges of the sun that somehow
Filter in to us before we waken.

Not yet is there that heat and sober
Vivisection of more clamant air
That hands joined in the dark will answer
After the daily circuits of its glare.

It is the time of sundering…
Beneath the green silk counterpane
Her mound of undelivered life
Lies cool upon her – not yet pain.

And she will wake before you pass,
Scarcely aloud, beyond her door,
And every third step down the stair
Until you reach the muffled floor –

Will laugh and call your name; while you
Still answering her faint good -byes,
Will find the street, only to look
At doors and stone with broken eyes.

Walk now, and note the lover’s death.
Henceforth her memory is more
Than yours, in cries, in ecstasies
You cannot ever reach to share.

Foto: © Walker Evans Archive, The Metropolitan Museum of Art