La poesia scapigliata e femminista di Evelina Cattermole
Evelina Cattermole (Firenze 1849 – Roma 1896) è il nome di una poetessa oggi dimenticata. Donna controcorrente e fine scrittrice, la Cattermole fu capace di sfidare la società italiana del tempo, frequentando alcuni dei più celebri salotti letterari di Milano e Roma e facendo a lungo parlare di sé.
Lina -come la chiamavano usualmente- era figlia di un professore d’inglese e di una celebre pianista e, sin dalla giovinezza, padroneggiava tre lingue, distinguendosi per la spigliata intelligenza. Sebbene una parte dei critici dell’epoca definirono la poesia dell’autrice “uno scrivere senza spessore”, molti furono coloro che, di contro, apprezzarono lo stile della Cattermole, che si caratterizzava per una poetica delle piccole cose e, dunque, in un certo senso “tipicamente femminile”.
Nonostante l’ancoramento all’universo quotidiano, i versi della scrittrice anticipano le tendenze decadenti e fanno propri alcuni dei temi della scapigliatura, movimento artistico e letterario degli anni ’60 del XIX secolo, che si rifaceva al maledettismo di Baudelaire ed esaltava il mito di un’esistenza zingara. L’intera vita della Cattermole incarnò, del resto, la disobbedienza tipica degli artisti parigini, capovolgendo i cliché che volevano la donna del tempo totalmente dedita al nido domestico.
Celebre fu, a tal proposito, l’amore clandestino che la poetessa -già sposata- ebbe con Bennati Baylon. La relazione venne, tuttavia, scoperta dal marito di Lina -uomo dipendente dal gioco d’azzardo e che s’intratteneva spesso con attrici- che sfidò a duello Baylon, uccidendolo.
Assolto perché aveva agito per ripristinare l’onore leso, il marito di Lina ripudiò la donna e la cacciò di casa. Fu allora che anche i salotti respinsero la scrittrice adultera e che cominciò per lei una vita di stenti, tanto che persino il padre si rifiutò di riaccoglierla a casa. Solo la nonna di Evelina fu disposta ad aiutarla e, proprio a costei, l’autrice ha dedicato alcune delle sue poesie più belle. Nonostante lo stigma sociale che le gravava addosso, Evelina riuscì a riprendersi dalla vita di stenti che conduceva e, ben presto, i salotti letterari le riaprirono le braccia, apprezzandone lo stile poetico e l’originale personalità.
Prima della tragica fine, avvenuta per mano del pittore napoletano Giuseppe Pierantoni, suo compagno, la scrittrice dette alle stampe due importanti raccolte, “Versi” e “Ancora versi”. Nel 1896, infatti, Evelina morì per mano di Giuseppe Pierantoni, che le sparò all’addome dopo una relazione burrascosa e caratterizzata dalla forte gelosia dell’assassino nei confronti della poetessa che, tuttavia, non riuscì a liberarsi da tale malsano legame. Tant’è che la vicenda della morte della scrittrice è tristemente passata alla storia come uno dei primi casi di femminicidio.
La Cattermole -oggi purtroppo dimenticata- lascia una serie di poesie inedite, che verranno pubblicate postume e che si caratterizzano per uno stile classicheggiante e ironico, in parte carducciano, e segnato da un’inquietudine esistenziale: essere, insieme, donna e artista.
La scissione che la poetessa vive e il disagio -derivante anche dall’esperienza del fallimento matrimoniale- vengono analizzati approfonditamente nei versi, con uno stile che si fa, a tratti, psicologico, come nella strofa della poesia Di sera, che recita:
«Poi torna allegro, m’accarezza il viso,
e mi domanda se son stata buona,
senza nemmeno sospettar che ho pianto».
Parole in cui emerge, forte, il disagio dell’incomprensione: Lina approfondisce, difatti, il disagio un rapporto in cui l’uomo che dice di amarla – nonostante le carezze e le attenzioni formali che le destina – non si accorge neppure che lei abbia pianto.
Il coraggio con cui viene analizzo il tema dell’incomunicabilità nella relazione affettiva, mette altresì in luce la modernità di vedute della scrittrice e la sua concezione controcorrente circa il ruolo femminile.
Non mancano poi, nella poetica di Lina, componimenti che invece si caratterizzano per una forte malinconia che anticipa temi tipicamente decadenti, con uno sguardo sospeso sulle cose che appassiscono, in cui la mente vaga sul passato e si posa su secchi fiori e sulle ciocche di capelli -simbolo di un amore a distanza- che rammentano gli anni di una giovinezza ammaliante; come nei versi:
«O povere mie carte, e resterete
con secchi fiori e ciocche di capelli,
rinchiuse entro uno stipo, in fra segrete
ricordanze de’ miei giorni più belli!»
Nella lirica Impressione, invece, la quotidianità prende forma davanti al fuoco acceso del camino, che viene paragonato all’ultimo sole.
Un sole languido, che già fa presagire l’inverno, immagine della vita stessa e del suo destino mortale, in cui tutto scolora, mentre il poeta, incapace di accettare tale destino, continua a desiderare che il fuoco non si esaurisca:
«Nella sala da pranzo ampia e fiorita
d’antichi arazzi, il sol s’indugia un poco
in una lista d’oro scolorita,
mentre scoppietta nel camin il fuoco.
È un tramonto d’inverno. Ecco la vita.
Ecco quale vorrei che a poco a poco
mi fuggisse dagli occhi, scolorita;
mentre in una quiete ampia e fiorita
Gli ultimi sprazzi ancor mandasse il fuoco».
© Fonte dell’immagine: Corriere della Sera