Giammarco di Biase (Foggia, 1993) è giornalista e operatore culturale. Scrive di letteratura su magazine e collabora con il «Corriere del Mezzogiorno». Suoi inediti sono apparsi su «Avamposto Rivista di poesia» e «la Repubblica». S’aggrinza un astro è la sua prima silloge poetica (Ensemble, 2023).
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È impossibile immaginare la poesia di Giammarco di Biase senza richiamarsi a un fine religioso, a una trascendenza, a un oltre o, meglio, a un alto. La verticalità del suo versificare, di cui dava già sufficiente prova nell’esordio S’aggrinza un astro , edito da Ed. Ensemble nel 2023, ora si fa più compatta, turrita, si protende verso uno dei cieli possibili all’immaginazione di un poeta e di un peccatore. Le piane rarefatte di una metrica scomposta, non convenzionale e di una forma libera ora fanno spazio a strofe più dense e a personali reinterpretazioni di forme classiche. Tra le colonne di questi edifici si inscena il dramma caravaggesco del peccato inteso come fibra perenne dell’individuo, che si agita, rivolge gli occhi al cielo e prega, attingendo a un breviario fatto di fitte citazioni alla poesia moderna (da Dickinson a Rilke, da Glück a Benedetti) e alla cinematografia, oltre che alla simbologia cristiana. La poesia di Giammarco di Biase è scenica, è tutta stemperata nelle variazioni del chiaroscuro tra la carne e l’aria, tra l’urlo strozzato e il canto, così figure e oggetti carichi di nitore popolano i suoi testi: la madre, la terra, la stella, il latte/veleno, la lacrima/stilla di sangue, l’angelo/fantasma, la sposa/amante. Elementi minimi costanti, investiti e mossi dal turbamento, dal gemizio della ferita che è una domanda verso l’alto: – Io, dove sono? Dov’è il mio posto qui giù? La preghiera è sempre anche domanda di senso e la risposta è duale come doppia è la natura degli oggetti poetici di queste ed altre liriche del poeta foggiano, cresciuto in un luogo geografico che trova invece nell’orizzontalità – una terra agreste, il Tavoliere – la sua dimensione primigenia. L’ascesa è tanto più dura quanto desiderata.
Francesco Elios Coviello
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La notte che cade sulla candela lascia
vuota la cavità per l’elemosina se piange,
per il solco se appaga, per la lingua se sputa
sulla luna la sua ansia triste. (Cade di giorno
un’intelligenza, negli olmi viziosi dove frana
la senti l’inerzia che stona?). Nel delirio
degli ipermercati il sogno chiama, è il sogno
rovinoso che scorda gli oneri in un tempio
arcato, le mie orbite ritte lungo i colonnati,
stese a dormire sui gradoni delle ipotesi.
La pizia, al centro, indossa un mantello
nasconde dietro il suo drappo la pecora
senza testa lanosa con le zampe e grida
il suo verso potente: “Nutriti di questo
animale ma mangiane soltanto la verità”.
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Ho sognato dio nelle sclere
che frantumava il suo primo veleno
in un grido appena la grazia
dell’alba si è sporta
e io sono apparso nel travesti di
una sposa sotto il coperchio bianco
del latte nuziale come accucciato
nell’imeneo che risuona nell’antica casa
le rivierasche, al di là dei contorni
della mia vocale la finestra aperta
i vogatori allattati dal sole il risveglio
gelato di un orfano.
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Ho letto al funerale di mio zio Louise Glück
e abbattuto un tasso in nome di Rilke
per farci un arco. A trent’anni finisco le parole.
È possibile che una lacrima si sia attaccata
al mio fantasma, così strofino i dotti collosi
ma il cervello mi diventa tutto bianco. Un uomo
passa alla finestra e vede lo specchio stempiato
di me come vuoto il suo avvenire. Ma i poeti
sono troie smemorate e scambiano
tropiche con un fiocco di neve. Allora
tu con il controllo degli occhi con la nebbia
osserva il verso d’ectoplasma che non scrivo.
Saprò come vendicarmi.
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Penso a mia madre e entro
nella follia di voler sentire come lei
e avere le sue piaghe. Sulla fronte
i campi sono arati e i cieli attraversano
come zattere di cipressi una tristezza
l’orecchio d’oro ascolta, così le stelle
in petto calamitare. Mi hanno detto
che il latte materno a digiuno si trasforma in veleno
quando la rampicante nel ventre trova il suo centro.
Che di nuovo nascere in un figlio tradisce
il mio sogno e mia madre è il vero consenso
di questo tradimento.
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Nelle notti d’estate mi parli
con un alfabeto di costato.
Ispiri espiri la brace e il tuo polso
s’indora come nella distanza di lucciole
perché i chilometri sono nella pelle non negli occhi
se senti la mia mano crollare su belle di notte.
Mi hanno detto di te, della tua luna acre
di calzari acquai e salsedine ma la battigia
mai mi ha detto che una donna per grondarla
devi fissare isole in agosto
e rinserrare venti, continuamente.
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© Fotografia di Valentina Capparella.