Fernando Marchiori è autore di studi che incrociano letterature e arti performative, tra i quali César Brie e il Teatro de los Andes (Ubulibri 2003), Mappa Mondo (Einaudi 2003), Il Teatro Vagante di Giuliano Scabia (Ubulibri 2005), Beckett & Puppet. Studi e scene tra Samuel Beckett e il teatro di figura (Titivillus 2007), Con i poeti (L’Obliquo 2008), Megaloop. L’arte scenica di Tam teatromusica (Titivillus 2010), Negli occhi delle bestie. Visioni e movenze animali nel teatro della scrittura (Carocci 2010), Media teatro memoria (Cue Press 2020). Fra i testi narrativi, il romanzo Scritto dentro (Poiesis 2012) e il racconto Berta è scappata (con disegni di Franco Hüller, Titivillus 2013).
Vengono fuori dal niente,
da un sogno che ritorna,
salgono nella nebbiolina
dalle barene di erbe rade.
Hanno lasciato le botti nascoste
degli appostamenti di caccia,
la notte infilata nell’acqua
in attesa della folaga al passo,
dello smergo, dell’anatra muta
che ora li fissa negli occhi arrossati,
gonfi di sonno, grappa, fumo di sigarette.
*
Nelle cavane fradice, sospese,
altri incurviti saltano su
strampalati dai barchini stretti
di ritorno dalla pesca con le mani,
con la fiocina. Stavano ficcati
nell’aurora dei canneti, nelle velme,
quattro cavalli di motore per andare
verso la striscia di rosa lontana
e una pertica per spingere piano
quando l’elica s’impantana,
puntare il petto su uno slancio
lento, spostando il peso del corpo
avvinghiato al legno consunto
per raggiungere le secche, stare nelle melme
fino al ginocchio, tirare il fiato prima
di trascinare sul fondo dell’anima,
nel fango opalescente di un rimpianto,
il sonante rastrello delle vongole.
*
Toccata terraferma, stirano
la schiena e si voltano indietro,
le mani aperte sulle reni,
a guardare dove non sono
sicuri di essere stati.
E ora come cani abbandonati
camminano sull’argine del sogno
dondolando nella bassa
marea dei passi incerti
la coda di un tormento, balbettando
un languore di nottata insonne,
il torpore sudicio della camicia a quadri,
il corpo rannicchiato sulle gambe storte,
sulle spine dei reumatismi, sui diavolini
che pungono le dita mentre allungano a riva
i vecchi cesti con i pesci, i vasi di pittura
mezzi pieni di vongole, peoci, garùsoli,
qualche capalonga, qualche capasanta,
e quasi sorridono mentre passano
ancora una volta e sembra controvoglia
le dita tra le conchiglie risonanti
nella loro acqua grigioverde
per sentirne la musica – e scartano al volo
quella che suona vuota – prima di chiuderle
nei deformi ingombri bagagliai
delle loro utilitarie tutte ruggini,
smangiate dalla salsedine acida
della seconda zona industriale.
*
Oppure se ne stanno accucciati con i cani
stremati e fieri delle prede
e accarezzano i colori
sul collo delle anatre riverse,
con un pensiero che non sanno
riconoscere e sfugge e lascia tutti
inebetiti di stanchezza e solitudine.
*
Così vanno, insieme ma distinti,
insieme solo perché distanti
l’uno dall’altro nel silenzio,
nel taglio degli occhi, del carattere,
nella disposizione animale a sfuggire,
a acquattarsi, docili e sospettosi,
ognuno a suo modo, a sua volta,
nell’ordine sparso delle cose intorno,
se ne vanno e sentono che in realtà
si stanno lasciando portare,
e che è il loro modo di andare
solitariamente insieme e silenziosi
all’osteria dei cacciatori,
due stanze e una veranda,
che tiene aperto per loro,
che non chiude mai,
per l’ultimo caffè corretto.
© Simbolo estratto dalla copertina dell’opera, progetto grafico di Mariacristina Colombo
© Fotografia di Giorgio Meneghetti