© Fotografia di Mauro Terzi
© Fotografia di Mauro Terzi

Federico Carrera, “Tentativi di vita” (Edizioni Effetto, 2021)

Nota a cura di Adriano Fraulini

«Siamo tutti qui per fare tentativi e offrire la nostra personale declinazione di racconti e poesia». Iniziano così, con questa citazione in esergo di Paolo Sorrentino (autore sommamente amato da Carrera), i Tentativi di vita del giovane poeta formiginese. Giovane sì, certamente, e tuttavia già così toccato dal sacro furore della bellezza interdisciplinare: non solo poesia, dunque, né letteratura, ma molto, tanto altro, proprio a partire dal cinema, frequentato con inesausta passione. Il discutere fra loro e senza soluzione di continuità delle varie manifestazioni artistiche conduce poi naturalmente a una sovrapposizione di stili e a diverse modalità espressive, che rintracciamo disseminate tra versi, parole e immagini appartenenti a questo giovanissimo ventiquattrenne, che pare quasi nato classico di suo, pare quasi essere, appartenere e vivere in un tempo a parte. Anche per questo non deve stupire vedere quanto sia già consistente e di tutto rispetto il Curriculum Vitae artistico di Carrera: dalla laurea triennale conseguita cum laude in Lettere Classiche all’Unibo con una tesi sulla traduzione di Pasolini dell’Orestea di Eschilo, a diversi cortometraggi e mediometraggi realizzati e diffusi tramite il suo canale YouTube, fino alla prima plaquette di versi, pubblicata appena maggiorenne presso Edizioni Effetto e intitolata Frammenti di noia. Ecco, frammenti, tentativi: tutto pare richiamare al piccolo cabotaggio, almeno nella scelta dei titoli, compreso quello della sua seconda raccolta di poesie, Tentativi di vita, pubblicata nel 2021 dallo stesso editore e premiata con il prestigioso Premio Mauro Maconi (Sezione Under 40) nel 2023. Dal 2022 Carrera è collaboratore ufficiale del Poesia Festival delle Terre dei Castelli, apprezzata rassegna poetica che racconta il mondo della poesia e affini nella provincia modenese. Dal 2023, poi, entra nella redazione di Poesia del Nostro Tempo. Ecco: così tanto in così poco tempo; così come non serve sentirsi facili profeti per prevedere – negli anni a venire – una ulteriore trasformazione del versificare di Carrera, un possibile tramutarsi  in direzione di una poesia del mondo e sul mondo, una poesia dei bisogni sociali e collettivi, senza tuttavia troppo trascurare una personalissima dimensione ben più intima e orgogliosamente incentrata sul profondo che attraversa l’umano, comunque altro, dunque, rispetto agli attuali – strepitosi – frammenti che, come suggerito dalle motivazioni della giuria del Premio Maconi, vergate da Mario Santagostini, «sembrano esercizi di minimalismo narrativo». Una quotidianità rastremata, quella dei Tentativi di Carrera, in cui – sempre a far fede da quanto detto da Santagostini – «va osservato come persone, oggetti, squarci vanno via via sfumando fino a raggiungere una sorta di opacità quasi assoluta, quasi da sogno». Ed è in questa illuminante descrizione che non può non far capolino, nei versi di Carrera, quel milieu montaliano tipico degli Ossi, quel clima freddo e terso da Forse un mattino andando in un’aria di vetro, in cui – sono sempre parole di Santagostini – «il cosiddetto mondo vero […] si va interfacciando con un altrove del quale si può dire poco o nulla. Solo rilevarne la possibile, misteriosa, inquietante presenza, il suo prolungarsi fino a noi per tracce e segni. O il suo possibile darsi come un montaliano “anello che non tiene” e che potrebbe spalancare la vista su un universo nuovo». E Montale è davvero nume tutelare, vera presenza in tutte e tre le sezioni del testo, presenza che guida e corrobora, poesia dopo poesia, il talento poetico carreriano, la sua narrazione in versi. Nella prima sezione, La ricerca del Tu, Montale è presente fin da subito, fin dal titolo, per poi condividere lo scettro della ricerca dell’altro – vero, presunto o atteso – con momenti di inusitata dolcezza («Gli amanti si scontrano / quando i baci esplodono / e passando e ripassando / sotto al portone di casa tua / si feriscono con gli occhi / si disarcionano gli sguardi») di prevertiana memoria, talvolta con compagni di viaggio troppo presto salutati (è il caso dei commoventi versi riservati ad Andrea: «Andrea, moristi e di te mi rimangono / scarsi frammenti di pellicola muta, / sbiadita dal tempo, / come quei film / che a te piacevano tanto»), per poi tornare, terminare la sezione con Riviera, scopertissima lirica montaliana di ambientazione ferrarese, in cui la fattura lessicale è giocata tra parodia e ricalco dell’amato, grande ligure (e allora ecco un susseguirsi di sintagmi che sanno, odorano di casa: da baluginare e miracolo a proda, poi le Muse appollaiate, l’uomo perduto, un dove sul mare, riviera).

La seconda sezione, Due poemetti, risulta essere forse la più intensa della raccolta, in particolare modo le nove poesie del primo poemetto, Sparuti versi di fine estate, un repêchage della Liguria e della vita giovanile del padre e della sua famiglia, in cui le storie e gli addentellati di persone comuni prendono il sopravvento emotivo nel lettore, anche per interposta persona o tramite involontarie madeleines del ricordo, oggetti o fotografie, come nel caso del socialista Sergio, morto nel novembre 1984, assiduo estensore di lettere di caldo amore per la nonna del poeta; o come Oscar e la sua biblioteca immensa, morto d’estate, sdraiato su un divanetto rosso; o ancora Luciano e il suo bar con i biliardi e la mamma che «[…] sedeva sempre sul balconcino / a guardare il mare e sentire il vento». E avanti così con altri, alla stregua di tante anime – vive ora e vive un tempo – convocate alla quotidianità del poeta, in un personalissimo “tema dell’addio”. Un passo a due, invece, il secondo poemetto, Ripresa, in cui la fine estate settembrina fa da sfondo a una sentita débâcle sentimentale, a una vera e propria caduta nel gorgo dell’amore, in cui gli effetti fisiologici dello scoccare del sentimento ricalcano la tradizione poetica più classica, solo adattati alle more del tempo, e allora «una reliquia stanca si risveglia al mattino, / di me è rimasto poco, un soffio e ti ho quasi / toccata: grigio e pioggia, mi cucino una pasta. / Pranzo solo //». Ecco, basterebbe soffermarsi un momento su questa quartina per cogliere l’animale poetico strenuamente montaliano che si cela e lavora nella cucina dei versi di Carrera, tra una evidente citazione (maturata nell’inarcatura tra i versi 6 e 7) delle splendide Divinità in incognito e un décalage verso la solitudine (partendo, la sera precedente, dal pieno e vivo di un amore), passando  attraverso un altro grande “classico” montaliano, ovvero il depotenziamento dell’aulico nel quotidiano ottenuto tramite l’elemento culinario. Poi i dubbi, i ripensamenti dell’uomo che si fa “cosa”, del sentimento che più non si conosce, fino all’allontanamento dall’amore e dalla stagione estiva, fino all’animo che si spegne «e l’aria è diversa, così come si prospetta anche / quest’inerme accumulo di casuali eventi / e di incontri, che si è soliti chiamare vita//».

Ecco, qui è intervenuta la vita con i suoi incontri, con i suoi tentativi. E il poeta annota gli avvenimenti e impara – empiricamente – dai piccoli fatti diversi e quotidiani. L’imparare dalla Storia – quella collettiva e quella personale – è l’abbrivio che conduce alla terza e ultima sezione del libro: Educarsi al silenzio. Una sezione in cui la deissi e l’onestà con sé stessi sono il passaggio necessario per giungere a una vera e propria dichiarazione di poetica, peraltro introdotta in esergo da una citazione calviniana, che ricorda come non basti il momento dell’illuminazione presente per capire il mondo: conoscere le premesse e immaginare le conseguenze resta un atto di pulizia necessaria della mente e della visione. Non si può dare poeta o artista che non abbia speso una riflessione su questo che rappresenta un vero attraversamento delle forche caudine della visione del mondo, della sua spiegazione. E allora ecco che il poeta accetta di guardare in profondità le sue esperienze, i suoi tentativi di vita, e lo fa con inusitata franchezza, quasi con spirito propenso al martirio di sé stesso; lo fa con una serie di versi e poesie assolutamente e totalmente coese, dolcissime verso l’umano che palpita, eppure così crude e violente, pur nel pacato versificare. Ecco perché, come ancora una volta ricorda Santagostini, «il risultato è, allora, una visionarietà anomala e decisamente trattenuta». Appunto: l’onestà dell’autoanalisi e del processo dialettico porta a un tentativo di sviscerare ogni possibile elemento del rapporto amoroso con il “tu”, anche quelli più dolorosi e sentimentalmente sferzanti e perniciosi. È proprio questo il momento in cui il dominio del presente lascia spazio all’analisi del prima e del dopo, in una sorta di lunga durata del paradigma amoroso, esplicitato in un piccolo Canzoniere che potrebbe benissimo e con dignità essere affiancato ai grandi canzonieri presenti e antichi (Petrarca, Saba, Delfini, Mari…). E allora i versi sono una confessione del poeta, una mise en abyme emotiva e sentimentale, in cui compaiono eternità e inclinazione alla morte, in cui si ammettono colpe in vista dell’addio («Io ero stato freddo e antipatico»), in cui si va alla ricerca di ogni piccolo segnale della presenza dell’assente, fino al ricongiungersi nell’aldilà («[…] Allora / ci rivedremo lì: nel quando poi /tutto sommato alla fine non conta. / Ti aspetterò e sarò seduto»), nella solita rievocazione montaliana, rievocazione che possiamo rintracciare anche nell’utilizzo di singole parole cardine come «stasi» o, addirittura, in un avverbio come «intanto», adoperato in perfetta sintonia con le modalità delle già citate Divinità in incognito. E tra una citazione catulliana («[…] Infine / mi disprezzo e odio – perché accada, / mi chiederai. Non so, ma è ed è la fine») e altre opzioni teleologiche di ispirazione varia (ancora la Volpe, una delle muse montaliane), ecco la poesia terminale dell’opera. E qui Montale compare direttamente, tramite una sua poesia (Piove) e la finale, commovente rievocazione della moglie che più non c’è, sepolta nel cimitero di San Felice a Ema, e accompagna la sensazione di sfacelo di un vecchio stabile demolito in una via cittadina di Formigine, il paese del poeta. E la demolizione fisica lascia «[…] poche pietre scalfite in cocci», esattamente ciò che resta di un amore perduto. Siamo proprio giunti al capolinea, ma non si può non ricordare come ciò che finisce possa acquisire ulteriore fama e dignità proprio perché sfiorato, toccato dai versi, proprio perché eternato dal poeta. Ecco perché ciò che resta visivamente dopo la demolizione, ovvero una costruzione bianca, un piccolo porticato con incastonata una effigie di Cristo, finisce esattamente col ricordare, eternare il grande amore che non c’è più, perché i poeti questo fanno: fermano in un istante d’eternità la vita, anche quando abbandona: «Non è il ricordo, o la nostalgia: è un monumento / che resta e mi oscura la vista di ciò che non c’è».

 

*

 

Se solo non fossimo romani
che guardano alla grecia…
se solo non fossimo avvolti
da una nebbia padana…
sbuca dai cespugli, hai notato?
Non te ne accorgi neanche
e il cane latra alle ombre
la neve ormai sciolta
si confonde col verde (ultimo)
delle piante… Cos’è successo?
È tutto visto da una finestra,
quando gli scuri sono socchiusi
e l’ultimo barlume di sole
abbandona ormai spento
il freddo umano e disperso.
Buonanotte e non pensarci,
almeno adesso per favore
addormentati sereno e
per una volta lascia stare
non fa niente se non pensi
ai morti alle storie al mito
al segreto della vita da dimenticare.
Intanto al mattino sveglio
ti aspetta il grumo di fango
la poltiglia inesperta di vita
mischiata al ghiaccio ora sciolto
e solo questa può essere
la tua consolazione: avere
qualcosa che procede
senza senso ma inarrestabile –
o così almeno all’apparenza.

 

*

 

Due bambine su una roccia,
un mietitore su una stampa –
campagne deserte di campi distrutti,
poeti ammazzati maledetti,
strascichi d’una storia scoperti
e Amor che inventa sempre nuove cure.

*

Milano centrale ed è un dolore,
un amore che parte uno che porta
i segni dell’antico e un cambio
verso Torino campi deserti a maggese
paludi del fiume autostrade battute –
nessuno. Un vecchio film francese,
mi piace e c’è la pioggia, nuvole sparse:
ma i monti appaiono limpidi all’orizzonte
nonostante le mie poche virtù e scarse.

 

*

 

Riviera

Su una striscia di terra
nella provincia di Ferrara,
tende simil antica Persia
svolazzanti e tese in triangoli
d’ombra per la villeggiatura
d’occasione; ricordi vividi,
la bocca sempre impastata
d’amaro. Nel baluginare
del sole non avviene alcun
miracolo. Sulla proda stanno
appollaiate le Muse, ma tacciono.
Stanco si affianca al palo di legno
l’uomo perduto. La verità: una roccia
smarrita sotto una sabbia inscavabile.
Ma poi le cose cessano di farsi simboli.
E finisce la giornata. Un dove sul mare,
in riviera.

 

*

 

Lasciati dedicare – che so – una poesia,
un’iscrizione lasciata sul legno. Ti prego:
lasciati dedicare una vita al tuo cospetto,
il martirio di una possibile scelta (poi
ritorta), il silenzio di una commozione –
era quella del divano seduti tutti
mentre si parlava di futuro e del fatto
che un giorno saremmo rimasti soli,
ciascuno al suo pentimento. Non che sia
un obbligo, uno sforzo del contingente,
solo: lasciati dedicare lo spazio
di una pubblicità, di un viaggio
sospeso tra una fermata di autobus
e la negazione di un concetto.
Lasciati dedicare il fatto che si spendono
lacrime su lacrime, afflizioni e pentimenti,
per un gioco che alla fine resta un nulla di fatto,
una vanità da opprimere, di chi respira la terra
e crede di essere nel cielo…
Così, allora, lasciati dedicare questo vano
e scarsamente eloquente elenco di echi
che rimpiange di non essere stato reale.

 

 

 

© Fotografia di Mauro Terzi