© Fotografia di Gianluca Mazza

A proposito di Enzo Mazza, una testimonianza di Alessandro Fo

A cura di Massimo D'Arcangelo

 

         Quando ancora iniziavo appena ad affacciarmi al mondo delle riviste letterarie collaboravo, con recensioni, schede e piccoli interventi, alla rivista abruzzese «Oggi e Domani», fondata e diretta da Edoardo Tiboni. Sul numero del dicembre 1992 (alle pagine 30-31) mi capitò di leggere una recensione di Pietro Civitareale a un libro di un poeta a me del tutto sconosciuto, Enzo Mazza. Si trattava di un libro piuttosto esiguo, come si poteva evincere fin dal titolo, 33 poesie per Fabio, ed era stato pubblicato nel settembre del 1991 da un marchio editoriale a me non meno ignoto dell’autore, la «Biblioteca Cominiana».
         Vi si apprendeva che il libriccino era «l’ultimo, in ordine di tempo, che il poeta dedica alla memoria del figlio, scomparso, una decina d’anni fa, a seguito di un incidente stradale». Civitareale scriveva di un «senso di pensosa mesta elegia» e di una «poesia di memoria, pervenuta, non senza travaglio, ad una sua ferma trasparenza: luminosità delicate, tonalità sottili e vibratili, coscienza vigile dei limiti necessari alla rammemorazione, un ripiegarsi su se stesso che si traduce in una libera intenzione di sommesso diario e confessione, di accorato disegno delle cose care». Più oltre, venivano riportati alcuni versi; per la precisione l’intera poesia n. XXV:

 

                  Strano che le inezie sopravanzino
                  perfino gli astri e le ombre che nascondono
                  la scimitarra della luna: le aste
                  incerte, le vocali, i primi segni
                  grafici, i più semplici vocaboli
                  nei tuoi quaderni, e l’asinello
                  di Villa Sciarra. Mi ispiravi caste
                  parole. Nel succedersi
                  degli anni, strano tutto
                  tra Focene e Fregene, le provviste
                  su un prato, l’acqua e il vino
                  nel buffo frigorifero portatile,
                  l’accanirsi maldestro su un pallone.
                  Strano che un pugno d’anni sia distrutto,
                  e non vi sia risurrezione.

 

         Qualche altra osservazione, qualche altro sparso verso, e poi l’intera poesia XVI:

 

                  Camminami davanti, a fianco, dietro,
                  non perdermi d’occhio.
                  Un angelo non è una guardia
                  del corpo: un fumo azzurro,
                  piuttosto, che mi avvolge
                  e mi nasconde gli strapiombi
                  a cui la notte, soprattutto, guardo.
                  Saprai che sono in ginocchio
                  sull’impiantito, come cieco,
                  né so orientarmi a un sussurro
                  strozzato. Tocco perle
                  che scivolano, rimbalzano
                  dal filo. Sembra piombo
                  il mio corpo. In quale bolgia
                  sia finito, tu solo puoi saperlo.

 

         Le due liriche mi colpirono profondamente, lasciandomi immediatamente l’impressione di trovarmi di fronte a un poeta di inusitata grandezza. Quel dolore veniva modulato con nuda semplicità, con grazia, e con un’alta musica in cui l’arte convergeva, quasi con sprezzatura, a smaltare le immagini e le superfici in una sorgiva, naturale maestria. Giustamente Civitareale metteva in particolare rilievo «la dignità indiscussa dell’eloquio, il rigore stilistico, l’antiletterarietà del linguaggio», il «dettato poetico fermo e convincente».
         Mi riproposi di cercare quel poeta, per conoscerlo meglio. E non fu facile, perché, al contrario di quanto normalmente fanno i poeti, sembrava quasi che ‒ al di là di quel suo canto levato in solitudine ‒ Enzo Mazza cercasse di non lasciare tracce, di applicare il gaddiano «per favore, mi lasci nell’ombra».
         Grazie al mio libraio di fiducia, Emiliano Bigazzi, venni a scoprire che Mazza era molto amico di un insigne intellettuale e poeta senese, Alceste Angelini, e che viveva vicino a Chiusi, e dunque non lontano da Siena, alla cui Università lavoravo. Ne rintracciai l’indirizzo. Gli scrissi. Con grande cortesia, ma insieme con una certa prudente ritenutezza, mi rispose e mi fece avere il primo dei volumi con cui aveva iniziato il nuovo drammatico corso della sua poesia: Poesie per Fabio. Lo lessi fra una crescente ammirazione e molte ineluttabili lacrime. E continuò il carteggio: Mazza mi inviava ora uno, ora due dei successivi libretti del suo canzoniere, ma sempre come se stesse sul ‘chi va là’, pronto a registrare anche solo una minima stonatura nelle reazioni del suo corrispondente. Si produsse invece una crescente sintonia. Così, una delle piccole ‘missioni’ di cui mi sono via via negli anni fatto carico è stata proprio cercare di far conoscere quanto più possibile questa splendida voce auto-condannatasi a una chiusa marginalità.
         Uno speciale ringraziamento rivolgo dunque a «Atelier» che mi sollecita oggi a farla meglio conoscere alla non piccola, competente cerchia dei suoi lettori.

 

         Enzo Mazza è nato a Roma il 1° gennaio del 1924 e si è spento all’Ospedale di Nottola il 7 febbraio 2017. Fine letterato, è autore di una splendida traduzione di Catullo per Guanda (1962), sulla cui rilevante posizione nel quadro delle molte traduzioni italiane del poeta veronese si registra ora l’intervento di uno specialista come Alfredo Mario Morelli (Il disunito filo che ci unisce. La traduzione catulliana di Enzo Mazza, in «Paideia», n. 73, 2018 Pars prima (I/III), pp. 175-202). Ha tradotto anche l’Appendix Vergiliana e vari brani dell’Eneide, oggetto di cure filologiche e studio da parte di Daniela Gentile (se ne vedano Dalle carte di un poeta. L’Appendix Vergiliana tradotta da Enzo Mazza: edizione e note, tesi magistrale in lettere, Siena, A.A. 2014-2015; L’Eneide di Enzo Mazza: la traduzione di un poeta, in «Annali di Studi Umanistici», Università di Siena, 3, 2015, pp. 9-84).
         Laureatosi sotto la guida di Attilio Momigliano, insegna a Roma, dove con altri amici fonda nel 1957 la rivista di poesia e letteratura «Marsia», e dove sposa Elena Panicucci nel 1962. Il 30 ottobre 1965 nasce il primogenito Fabio; il 27 marzo 1974 il secondo figlio, Gianluca. Nel settembre 1981 rientra a Roma dalle vacanze a Castiglioncello, per provvedere alla sessione degli esami di riparazione. Lo accompagna Fabio, che la sera dell’8 esce con un amico, secondo passeggero sul suo motorino. Durante la notte, hanno un incidente: Fabio viene a mancare. Mazza lascia l’insegnamento e si ritira con la moglie e il secondo figlio Gianluca in un casolare vicino a Chiusi. Da allora trascorre una vita intera a scrivere poesie con cui ha dolorosamente affrontato ogni possibile frammento della sofferenza che può infliggere a un nucleo familiare una simile perdita. Pubblica ‒ o piuttosto «stampa» ‒ varie raccolte, nella collana/sigla editoriale «Biblioteca Cominiana», fondata e diretta insieme a Bino Rebellato. Libri quasi introvabili, che non ha mai curato di promuovere adeguatamente. A un certo punto quella stessa dolente memoria che per tanti anni lo ha sostenuto comincia a dissolversi, e il poeta entra in una lunghissima stagione di una malattia, l’Alzheimer, che presto lo sottrae alla comunicazione con quei suoi cari che fino alla fine con amore lo hanno accudito.

 

         Nel 2021, a quarant’anni esatti dalla notte in cui Fabio venne a mancare, un gruppo di strenui ammiratori del suo legato letterario riesce a raccogliere il grosso della sua produzione in due corposi volumi che ‒ recando a colophon quelle date cruciali, cioè rispettivamente l’8 per il I e il 9 per il II ‒ inaugurano presso Betti Editrice di Siena, la collana «I Paralleli»: Il canzoniere per Fabio e altre poesie a cura di Alessandro Fo, Daniela Gentile e Claudio Vela, con uno scritto di Alice Borgna, 2 voll., 8 e 9 settembre 2021. Ha voluto rimanere defilato un quarto fondamentale collaboratore, e grande amico dei Mazza, Antonio Pane. L’opera raccoglie integralmente il ciclo per Fabio, e altri editi e inediti. Questa la struttura:

 

         Parte prima: Il nucleo familiareL’acqua e il vento, maggio 1967; Otia, giugno 1977; L’invisibile, giugno 1982.

         Parte seconda: Il canzoniere per Fabio – 1. Poesie per Fabio, 1987; 2. L’albero del niente, ottobre 1987; 3. Nella calante oscurità, luglio 1988; 4. In fondo al corridoio, luglio 1988; 5. Gemito e tremore, settembre 1990; 6. Ultimi frammenti, novembre 1990; 7. 33 poesie per Fabio, settembre 1991; 8. L’ombra d’un sorriso, ottobre 1992; 9. Frammenti postumi, gennaio 1994.

         Parte terza: Altri versiPer i sedici anni di Gianluca, 1990; 12 poesie per Bruno Carnevali, novembre 1990; Versi a Marinka, luglio 1993; 12 poesie per Alceste Angelini, luglio 1995; Postille inedite, dall’autoantologia Uno di questi giorni: poesie scelte (1954-1994), maggio 1996; L’oscuro lembo, aprile del 2000; Perplesso, agosto 2000; Senza saperlo, 1° gennaio 2001; Una vaga speranza, 2002.

 

         La prima parte raccoglie le tre sillogi lungo le quali si era avviata, in seno ala costruzione della famiglia, la musa del poeta prima dell’incidente. Paradossalmente, L’invisibile chiamava in causa una sorta di premonizione e di timore di un’imminente decurtazione di quel nucleo, che Enzo riteneva dovesse riguardare la sua propria persona. Pronta da prima dell’incidente, quella raccolta ne uscì poi ad alcuni mesi di distanza. Intanto Enzo, quando gli fu possibile, iniziava a costruire coi versi il monumento che solo dal 1987 avrebbe iniziato a divenire (moderatamente) pubblico.
         Non occorrono molte altre parole per presentare questi testi. Al lettore sensibile sarà sufficiente leggerne l’ampia scelta che la Redazione di «Atelier» ha voluto qui di seguito presentare. A me, che ormai tante volte ho scritto di Enzo Mazza (e, chi desiderasse approfondire, può forse partire dall’introduzione e dalla bibliografia delle Poesie per Fabio), sarà sufficiente sottolineare, a beneficio del lettore, con quanta addolorata fantasia Enzo Mazza abbia saputo variare, nelle nove raccolte pubblicate (e nella montagna di quadernetti dattiloscritti che restano inediti), quel motivo cruciale del lutto. Mai una banalità. E sempre, invece, un affondo carico di sentimento, di austera intensità, di valore comunicativo per tutti noi, condannati a subire prima o poi una qualche drammatica decurtazione, alla cui sofferenza questi versi si porgono come sponda espressiva di universale valore.

 

 

Alessandro Fo

 

 

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POESIE SCELTE DI ENZO MAZZA

 

Da 33 POESIE PER FABIO

 

XXX.

Se per amore i morti rinascessero,
che altro dovrei chiedere,
strappato dalle mie radici,
in una terra trapiantato
che ha sarcofaghi, sotto, e stanze
con scialbi affreschi privi di nequizia,
ancora non disseppellite
con suppellettili e monili,
sinistramente dislocati i punti
d’un antico scavare funerario.
Se veramente i morti
rinascessero, il tempo
non sarà tardo a rendermi giustizia.

 

 

*

 

Da L’INVISIBILE (Quaderni di Marsia, 1982, ma 1980)

 

VI.

Invisibile l’ala dell’insetto
nel penetrante raggio, una parvenza
che il fittizio pulviscolo trafigge.
Da un segno ricordatemi altrettanto
labile, fosse un’eco di parole
taciute in vita, il tremolio dal fondo
d’una bottiglia o, soffocato fuoco
da uno strato di cenere, un riverbero.

 

 

IX.

Quando mormora l’acqua rifluendo
sotto la pietra, o quando un movimento
di foglie addensa o attenua la penombra,
vieni a toccare i gracili alberelli,
l’erba spuntata misteriosamente,
pensami all’altra estremità d’un filo
che tra noi l’invisibile dipana.

 

 

XI.

Lascia che l’acqua e il vento
corrodano le pietre e le figure
alate, che sorvolino
ombre l’immensità della calotta,
splendendo il verde fino a farsi cupo.
Ma se a un tratto la notte
fosse in te, nei tuoi occhi,
se ti pungesse l’ago
dell’invisibile, esci
dal cancelletto, non voltarti indietro.

 

 

*

 

Da POESIE PER FABIO

 

dalla sezione 12 Sonetti, II.

Guido il figlio superstite ai giganti
nel bosco, a fenditure da cui, folgori,
escono le lucertole, o ne sporgono
appena, disparendo in un istante.

Ma te soltanto penso, ho te davanti
e chiamo sottovoce, fino a scorgerti
fra le ombre andare, e improvvisi gorghi
di luce, cancellarti oltre le piante.

Vorrei imprimere in me l’ultima fiamma
dei tuoi capelli, dirti che non reggo
la vita da una notte di settembre.

Dalla tua parte guarda anche la mamma
e con gli umidi occhi che non leggono
nel tuo destino, guarderà per sempre.

 

 

dalla sezione 12 Sonetti, V.

I tuoi sedici anni che non compi
oggi, li ho tutti nella mano, tela
che di sangue e di lacrime mi vela
nel tuo continuo, desolato incombere.

Ah, nelle stanze vivo non irrompi,
non mi guardi, fingendoti crudele,
con occhi adulti. In un obliquo cielo
t’inseguo, scorta a lontanante rombo.

Né so il più triste ottobre trattenere
non vedendone oltre alcuna via,
né più in fretta e con gelo liberarmene.

Unici vivi, tali da sembrarmi
ingannevoli, i pesci ed una scia
di bollicine nella vasca a sfera.

 

 

dalla sezione 12 Sonetti, VIII.

Fossimo dentro la più lunga eclisse,
l’imperforabile ombra d’una nube
o un oceano di ghiaccio mi si aprisse
dove abbia tregua l’ansia della fuga.

Vento che gli occhi arrossa e non asciuga,
qui, più lontano, in luoghi remotissimi
sarà il moto del tempo, scenda subito
la sera o le ore scorrano pianissimo.

Terribile è vagare dove un senso
al disordine, all’ordine pareva
venisse da un tuo impeto e dal fondo

d’una incompresa fissità. Non penso
che presentissi già la vita breve
né che a deserta angoscia tu risponda.

 

 

dalla sezione 12 Sonetti, XI.

Figlio, dove sarai, doppiato il capo
dei brevi giorni, oltre gli uccelli avidi
di seguire la schiuma delle navi:
dove sarai, sbalzato dallo scafo.

La vita da cui nulla hai preso è gravida
di oscurità, disperde ogni metafora,
ma il tuo limpido amore invoco ed apro
l’ultima agenda, sillabe soavi

traggo di foglio in foglio. Quale mano
ha fermato la tua mentre altri cerchi
disegnava più grandi al tuo destino?

Non ho speranza, scivolo sul piano
della memoria, temo le ore incerte
tra forme estranee e la tua acuta spina.

 

 

dalla sezione La penombra e i riflessi, X.

Cammino in una nebbia che deforma
il bosco urbano e mitiga i rumori
di queste strade dove ingoio lacrime
parendomi che tu vi passi ancora.
Spegne una lima larve di pensieri,
altri nascono gravidi di duolo.
Mi penetra, mi avvolge
l’atrocità del tuo non esser più.

 

 

dalla sezione La penombra e i riflessi, XV.

Non dimenticherò vicino al letto
la tua bottiglia d’acqua. Voglio ancora
riempirtela, se mai
non fosse ininterrotto il sonno. Vedi
la follia, quasi, che è in agguato dentro
i pensieri d’un padre, come avverto
l’anima tua nel tremolio dell’acqua.

 

 

dalla sezione La penombra e i riflessi, XXXII.

L’una, le due, le tre, le formichine
incolonnate sulla terra smossa,
un biancore improvviso di farfalla.
Il tempo umano non modella più
le tue sembianze, giorni e notti
nella torpida mente si pareggiano.
Vana ogni vita, vano
che chieda a te di camminarmi
con le tue suole silenziose accanto.

 

 

dalla sezione Dentro il cielo, Quel giorno

La mamma chiude il viso tra le mani,
si appoggia alla finestra mormorando
che non ha più paura della morte,
ripete i sogni in breve risucchiati
nel gorgo d’un domani indecifrabile,
le semplici parole in tua difesa
se le pareva ingiusto un mio sarcasmo.
Ma tu guardavi il mondo irresoluto,
e ora accarezzo i cigli delle strade
dove correvi, il cuoio del pallone
calciato in alto, atteso come un astro
sull’erba, i campi di periferia
che ti delimitavano la gioia
d’essere vivo. Ora la mamma sfiora
il tuo guanciale, come preparandosi
a non essere più. Nessuna angoscia
paragono ai suoi occhi che non vedono,
disseccati, di nuovo dentro l’onda
irrigua delle lacrime. S’incolpa
della tristezza che sentì, quel giorno,
nella tua voce, spezza in un singulto
l’esilità del filo della vita.

 

 

dalla sezione Altri sonetti, X.

Nessun ricordo, riandando adagio
nella memoria, suscita una foglia
rimasta dissecata fra due pagine,
né a trarlo su dal nulla il cuore invoglia.

Ma la calma apparente ne scompagina
un suono astrale o dalla terra spoglia,
muta di calpestii, come in suffragio
di chi si spense, un’acqua che gorgoglia.

Se è vano porre tra le cose eterne
le cose di quaggiù, gli oggetti in ombra
nella tua stanza, resti d’uno stilo

l’incidere segreto. Ne discerno
viva ancor più, sulla parete sgombra,
la luminosità del tuo profilo.

 

 

*

 

Da GEMITO E TREMORE (Settembre 1990)

 

7.

Ne avessi avuto
il dono, dire tutto
in pochi versi avrei potuto.
E poi? Nell’interiore
tempesta, invece, torno
a variare le minime
cose già dette, e non so come
regga il cuore miracolosamente
di giorno in giorno.

 

 

9.

Davanti alla scodella
gioco con gli stecchini, e il brodo
si raffredda. Ma ho nausea
d’un altro cucchiaio. Li dispongo
in forma di stella, né so
quale le si avvicini da un remoto
cielo. So che una stella
come questa compongono i bambini
più piccoli, su un banco
di scuola, oppure la dipingono
maldestramente. Anch’io sono maldestro.

 

 

10.

Lei che, da fuori, in un giorno
ventoso, di sole intermittente,
mi chiama per mostrarmi fiori
nati di primo marzo, di viola
soffusi e di giallo,
se tu ci fossi, avrebbe
chiamato te.

 

 

16.

Quante volte il fratello, volendo
parlare di te, mi guarda
e non parla. Lo so, me ne accorgo,
fingendo solo di guidare
senza pensare, verso un luogo
vicino, non guardandolo,
perché da sé il ricordo
nel tempo non gli dolga
e una lacrima non gli righi il viso.

 

 

26.

Oltrepasso una notte senza sonno,
scivolo lungo un giorno senza termini
di luce: è un’altra notte e non mi accorgo
che sia scesa. Così sarà per l’alba.
Forse a muovere l’ago, a farlo
impazzire sei tu, con uno schiocco
delle dita, con giovane protervia,
il tocco d’una mano a rianimarmi,
se da tempo non parlo,
ma, dentro, parlo, e so che tu non perdi
una sillaba. Gli anni imbiancheranno
chi mi sta intorno. I tuoi
rimarranno invisibili, pur verdi.

 

 

35.

O giorni o giorni o giorni
senza Dio, né schermi o intercapedini:
tutto delimitato da contorni
precisi, dal reggermi sui piedi
che mi portano (forse dormo
e distintamente non vedo
le indomite, aggressive forme
congiunte per farmi cedere).
Sono così stanco che la morte
è l’unica, costante apparizione
– o giorni o giorni o giorni –, corte
o lunghissime ore
se mi concentro o mi disperdo, come
sempre a settembre, gemito e tremore.

 

 

85.

Nel fango, nel fradicio, nel forse
premesso a una frase, e nei fóndachi
a fior d’acqua, simili a quelli
veneziani, nei forni
e nelle forme di pane
che vi infiliamo, c’è la nostra
vita, come nel taglio delle forbici,
nel tovagliolo con cui ti forbisci
le labbra unte: la nostra
vita intinta nell’inchiostro,
e le fobie, la forza di ripetere
freneticamente, anche, noi stessi
ogni giorno, e le favole, i misfatti.

 

 

*

 

Da ULTIMI FRAMMENTI (Biblioteca Cominiana, novembre 1990)

 

43.

Passano aerei e uccelli
di passo. Anche il dolore
si attenuerà fino a passare, dice,
fermandosi, un amico di passaggio.

 

 

47.

Con lui che mi è rimasto,
unica verde foglia, non di rado
il dialogo si spezza. Ma se guardo
le cose sue nella stanzetta
che mi ricorda Roma,
i fogli bianchi, gli strumenti,
m’intenerisco. Taccio
alla perpetua musica, gli parlo
nel buio, quando lui non può sentirmi.

 

 

79.

Il travaglio che dura
da anni, il tornar sopra
ciò che ho scritto in principio
o appena ieri, il bruciare, il salvare
frammenti, accumulandoli;
e, ancora, i viaggi a Città
di Castello, da alture boschive
scivolando in vallate
spesso nebbiose: a te dedico questo
inutile travaglio,
se in alto non ho mai mirato,
svolto piuttosto nella tenebra;
di cui, se rimarranno tracce,
quelle saranno dei pneumatici
lasciate sull’asfalto.

 

 

87.

Sai che vorrei
rivivere quel giorno,
fermo all’esile ombra d’un ulivo,
mentre voi giocavate nel giardino
e allontanarsi e ritornare udivo
le vostre voci in cui si stemperava
la mia tristezza. Il quadro era perfetto,
congiuntamente umano e arboreo, puro
come un momento della giovinezza.

 

 

106.

Se hai caro che ti venga accanto,
fammi posto (d’un dito
mi basta lo spessore).
A questo fine sono dimagrito.

 

 

*

 

Da SENZA SAPERLO (Edizioni degli Amici, Sargiano, 2001)

 

L’Intercielo

Spero in un intercielo, ossia
tra un cielo e l’altro un cielo in cui
si raccolgono i perduti amici.
Ma, forse, una celeste crudeltà
tiene i padri divisi
dai figli prematuramente morti,
gli amici dagli amici. Stanno
gli innocenti più in alto, i reprobi
in un profondo carcere di cui
è impossibile scorgere i confini.
Che mi costi l’Inferno una visione
così cupa, ormai rara la clemenza,
della bontà celeste
io segni non avendo?

 

*        *        *

 

© Fotografia di Matteo Carnevali