Nota e traduzioni a cura di Sarah Talita Silvestri
Esistenzialista nel regno della “Possibilità”, cresciuta in un ambiente calvinista, la poetessa di Amherst non decise una vita di solitudine, una vita di reclusione imposta per le delusioni della vita, la sua fu una scelta coerente, una selezione di spazi, circoscritti eppure immensi, e di interlocutori, una cernita fedele alla sua stessa essenza, che la traiettò lontana dai salotti letterari e da una vita mondana. Quando Emily Dickinson morì, il 15 maggio del 1886, nessuno sapeva che fosse una poetessa, a eccezione di una ristretta cerchia di familiari e amici. Soltanto dieci delle sue poesie erano state pubblicate mentre era in vita, tutte anonime e senza il suo consenso. Al suo funerale la maggior parte di coloro che la piangevano conoscevano di lei quella sua straordinaria capacità di coltivare fiori nella serra, che il padre Edward Dickinson le aveva costruito. Già all’età di 12 anni Emily era poietes e proprio tra gelsomini, narcisi, oleandri, gardenie e fragranti ossalidi, matura il seme della sua natura poetica. Era letteralmente un’artefice, sapeva fare tutto: un segnalibro, delle pantofole per il padre, faceva il pane, sapeva disegnare, i suoi temi a scuola erano conosciuti da tutti, suonava il pianoforte, amava improvvisare e sin da bambina in lei crebbe quella fascinazione per la catalogazione, la volontà di contribuire in un certo senso ad un ordine cosmico, di formulare un linguaggio simbolico che potesse competere in bellezza e varietà con la parola stessa. Potente come la marea e così difficile da delineare come donna impetuosa e sconfinata: Il mio bozzolo è stretto, mi chiamano i colori, / e sto cercando l’aria. /Già un’oscura capacità d’ali / mi fa sprezzare l’abito che indosso. La devozione, la passione, la gioia, la malinconia, la morte e la redenzione, il desiderio e la vacuità del successo, l’estasi e la scienza, tutto in lei si riversa e ogni sua ricerca verso il vero voga nel bacino dell’incertezza, oscilla tra gli estremi, stringendoli entrambi, accogliendoli dentro la sua immortalità.
Bibliografia
- EMILY DICKINSON, Herbarium, Elliot 2006.
- EMILY DICKINSON, Silenzi, a cura di B. Lanati, Feltrinelli 2018.
Senza esitare recitai la mia sentenza,
esaminai attentamente
nella sua ultima postilla
se avessi commesso errori.
Il giorno, il come del disonore
e allora quel sacro formulario
“Dio abbia misericordia” dell’Anima
fu il responso della Giuria.
Ho reso impudente la mia anima – coi suoi eccessi –
perché infine non fosse Agonia inattesa,
ma conoscendo la Morte
si accogliessero l’un l’altra come placidi amici
che senza un gesto si salutano e vanno avanti
e così risolvere per sempre la questione.
(412)
I read my sentence—steadily—
Reviewed it with my eyes,
To see that I made no mistake
In its extremest clause—
The Date, and manner, of the shame—
And then the Pious Form
That “God have mercy” on the Soul
The Jury voted Him—
I made my soul familiar—with her extremity—
That at the last, it should not be a novel Agony—
But she, and Death, acquainted—
Meet tranquilly, as friends—
Salute, and pass, without a Hint—
And there, the Matter ends—
(412)
*
La fama è così bramata
da coloro che mai hanno raggiunto il successo.
Per capire l’ambrosia
è necessario il dolente bisogno.
Neppure uno della livida armata
che oggi ha afferrato il vessillo
può definire tanto bene
cosa sia Vittoria
come colui che vinto – morente –
sente erompere
limpide e agonizzanti
le remote melodie del trionfo.
(67)
***
Success is counted sweetest
By those who ne’er succeed.
To comprehend a nectar
Requires sorest need.
Not one of all the purple Host
Who took the Flag today
Can tell the definition
So clear of victory
As he defeated – dying –
On whose forbidden ear
The distant strains of triumph
Burst agonized and clear!
(67)
*
Accordava le sue sublimi parole come lamine –
luccicanti splendevano –
e ciascuna denudava un nervo
o si mostravano licenziose con le ossa –
Lei mai aveva pensato di far del male –
Quella – non è una questione di acciaio –
un volgare sberleffo della carne –
che a malapena le creature reggono –
Desiderare è umano – mai discreto –
Una lastra sugli occhi
vetusta consuetudine il morire –
schiudersi appena – per scomparire.
(479)
She dealt her pretty words like Blades—
How glittering they shone—
And every One unbared a Nerve
Or wantoned with a Bone—
She never deemed—she hurt—
That—is not Steel’s Affair—
A vulgar grimace in the Flesh—
How ill the Creatures bear—
To Ache is human—not polite—
The Film upon the eye
Mortality’s old Custom—
Just locking up—to Die.
(479)
*
Esiste una certa inclinazione della luce,
pomeriggi invernali –
che schiaccia come macigno
sinfonico di cattedrali –
Dolore del cielo, concedici –
di non trovare infamia,
solo il divario interiore
dove abita il senso –
Nessuno può insegnarla, qualunque
sia l’afflizione che suggella
un tormento imperiale
infuso dall’aria –
Quando giunge, la vista ascolta –
le ombre – smettono di respirare –
quando va via è come la lontananza
dentro gli occhi dei morti –
(258)
***
There’s a certain Slant of light,
Winter Afternoons,
That oppresses, like the Heft
Of Cathedral Tunes.
Heavenly Hurt, it gives us –
We can find no scar,
But internal difference
Where the Meanings are.
None may teach it Any –
‘Tis the Seal Despair –
An imperial affliction
Sent us of the Air –
When it comes, the Landscape listens –
Shadows – hold their breath –
When it goes, ‘tis like the Distance
On the look of Death.
(258)
Fonte foto in evidenza: Emily Dickinson nel dagherrotipo ripreso fra il 1846 e il 1847, restaurato nel XXI secolo. La fotografia fu scattata al College di Mount Holyoke nel cui archivio è stata ritrovata, ed è una delle due immagini fotografiche autenticate e di certa identificazione. (da Wikipedia)