Diego Riccobene (Alba, 1981) vive in provincia di Cuneo. È laureato in Filologia Moderna presso l’Università degli Studi di Torino; è poeta, docente, musicista. Suoi scritti e interventi sono apparsi su antologie, webzine e riviste quali Atelier, Menabò, Poesia del Nostro Tempo, Critica Impura, Inverso, Versante Ripido, Laboratori Poesia, Pannunzio magazine, Neutopia, l’Estroverso. Alcuni suoi componimenti sono stati tradotti in lingua spagnola dal Centro Cultural Tina Modotti. Collabora con la redazione di Menabò online. Ha pubblicato Ballate nere (Italic Pequod, 2021), silloge segnalata in occasione del Premio Lorenzo Montano 2022 – sezione opere edite. A questa fa seguito il poemetto “Synagoga” (Fallone editore, 2023).
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Dalla sezione Gli assetati
Ignoro ammenda all’astio, non conosco
esatto rito a svellere
questo cicatrizzato padre intriso
d’amplesso, che s’asside ad ogni sosta;
nell’orbo sepolcreto la penanza
la ingoio tutta in segno
dell’ultimo supposto, l’annodare
sul luto tre radici del repente
e il giglio, nell’emottisi interlunia;
siccome l’ho seguito,
tra pieghe del carnato ch’è rimasto
dal Secolo trafitto, dal perpetuo.
Malcauto chi negava (e non ha smesso)
l’emolumento a sgorgo
di endometriosi netta, dell’icore
che non concede amore come ascesso
il giorno ivi disfatto; ma lui predica
la notte, che si celebri
la verga d’orizzonte blucrinito
quando tagliamo il tendine al giumento:
impregno mani e guance di fragranza,
poi sùbito il presagio
mi segua a cumulare sopra un marmo
il mio ritegno, il mio secreto verde.
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Dalla sezione Aponchoménai
È sempre un pegno, e se tu sconti o un altro
che vale? Lo vedremo rabescare
di lento e crisopallido
conflato quanto esondi poi dal tronco,
macchiare larghi tocchi di cordoglio
e tracimare il nervo.
Che voluttuoso invesco, quale ambage
principia per saldare il prisco sperpero
di forze non risolte?
Noi, prole dell’osmosi menarcale
grassiamo anche il dossale, come il coito
a concreare il culto:
ma è sempre un pegno, e quale fosse il corpo
che brucia crepitando, lo chiediamo
a chi serra la placca
sgrondata in fini avvalli della polvere
che frogi di tediate inanità
hanno sboccato a valle;
pur fermano le mani, quegli astanti,
non toccano il sigillo, non lo scuotono
dal suo desiderante
protrarsi alla materia: l’insoluta
prostituzione degli uni con gli altri.
E il Sintomo? S’elegge
spremendo le acque supplici dai molti,
ostenta struggimento nel vederli
ragliare la violenza
di chi ha mercanteggiato nella stessa
malerba, la cancrena data in sorte
dal lucro della cornea.
È sempre un pegno, e tu lo sconti urlando.
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Dalla sezione Inni
Il tuono è pietra e fuoco, fuoco e pietra.
Il fuoco incendia querce, incenerisce
armenti, la rovina di voi sobri
non basterà al battesimo in uranio
escreto tra le lacrime d’Astarte;
il fuoco spregia i campi, umilia i figli.
Il tuono è fuoco e pietra, in poco assurge
a qual dominio? Il cereo ribollio
vi parla, e traudite ogni risposta.
La pietra nera e tersa, l’ossidiana
o betilo scolmato dai supplizi
del vento, lo ialino accesso all’asse
– la poggerò sul petto della serva
tagliandola tra fibbie dentro un solco
che sempre tracci il centro: qual ignivomo
sublime, seco il banno irrevocato
lungo convalli d’odoroso sorbo.
Il tuono è pietra, e pietra innerva il regno.
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Dalla sezione Larvae
Farò scavare il fondo dove è vizzo
l’aciclico primordio dell’azzurro,
speranza sperperando nell’attesa
che l’anfora rigonfi insino all’orlo.
Sfarzoso l’ornamento sul corsetto
che smorfie mi lusinghi, dei tremori
a tòrre il dànno, n’è sì frastornante
e dolce – la quiete dell’astenico
da quel dispetto livido sul volto.
Eleggervi dimora è pur vedere
il falbo del profuso qui sotterra
ad afferire nel presentimento
che colliquando ci si digerisca;
ma attenderò capace nel mio succo,
e voi compagni, poi sarà l’inverno,
disfiorerete il bulbo del napello.
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In copertina: “Sapienza”, di Mirko Andreoli