Davide Cortese, “Zebù bambino” (Terra d’ulivi, 2021)

Nota di Carlo Ragliani

In forma ecumenica – termine altresì paradossale date le tematiche proposte da Cortese nella sua ultima creazione, ma non per questo meno adeguato – si può definire questa raccolta non già innestata in un macrocontesto biblico, quanto più fusa nella medesima natura umana che necessita un espediente simbolico onde disporsi al di fuori dell’epifenomeno cartolare, o sacrale che sia.

O meglio: se è vero che il punto d’appoggio della composizione si adagia su di un dualismo inconciliabile ed inerente alla due figure attratte dal verso, vertendo sul bene assoluto (Gesù) da un lato, e sul male compiuto (Zebù, abbreviazione di Beelzebub ed a sua volta vulgata del demone Baʿal zĕbūb) dall’altro, è altrettanto vero che l’opera tende a focalizzarsi sulla strettissima correlazione contraddittoria per cui i due poli estremi tendano a specchiarsi l’uno nell’altro, seducendosi e respingendosi in eterno.

Tuttavia, il senso della celebrazione di queste due entità nel libro non sarà un nucleo astratto ed asettico, la cui devozione rimane rebus sic stantibus e non incontra un apparato in cui devolversi. Anzi: negli intenti dell’autore si scorgono certamente il dialogo, se non anzi l’intreccio ed il contatto persino, tra le sfere celesti ed ipogee assieme.

Sul versante formale la cifra stilistica sembra assumere la forma di una canzonetta, slegata e liberata di ogni ripetizione tradizione di strofe, ma ancora unite in uno schema di rime elementari se non anzi bambinesche che, ricalcando il tema dell’infanzia, ottimizza la pasta della crifra stilistica, stendendola su quella verde innocenza della filastrocca, come voce della pargolezza che non conosce eccezioni né divieti, nell’incanto dell’impietosità.

Di qui, dunque, il significato canzonatorio del nostro – capace sia di simboleggiare e dimezzare alla necessità ogni soggettificazione, che di dissacrare ogni referente metafisico – ricorda nella propria genesi un certo abito compositivo delle compagini Scapigliate del nord-Italia (si pensi “Re Orso” di Arrigo Boito su tutti), soprattutto nel suo momento conclusivo in cui sia proposta il corpo artistico al lettore, non senza un certo compiacimento nella profanazione.

Ciò detto, fondamentale è sottolineare tanto lo scritto quanto il non-scritto: questo perché se da un lato il libro rifugge ogni tentazione olistica orientaleggiante, o comunque tendente ad un unicum i due fulcri contrastanti del testo (contestualmente, in chiosa), l’autore lascia intendere che vi sarà certamente una prosecuzione fisiologica (se non anzi fisica) all’opera, seppur non vergata sulla pagina.

Eppure, ammesso che vi sia una postura blasfema nell’allegorizzare queste posizioni, si rinviene una certa vettorialità e conseguenzialità delle figure solennemente scandite del dettato, in forza delle quali il protagonista assoluto del cantare (Zebù) si mostra in ultima istanza molto più umano che terrificante, incarnando (come l’altra parte, del resto) così quella natura sostanzialmente, se non totalmente, sofferente nella sua contraddittorietà, nella sua orfanezza, e nella sua tragica solitudine.

*        *        *

Scoccano insieme
la mezzanotte e il mezzogiorno.
È l’ora di un eterno crepuscolo.
Due miei volti si specchiano
nelle ginocchia sbucciate
del demone bambino.

*

Gioca ai dadi con le bambole
il piccolo Zebù.
A una ha dato il nome
della madre di Gesù.
Tatua fiori di melo e serpenti
sul seno di plastica di Maria.
Poi rosicchia quel seno coi denti.
Succhia il latte che finge vi sia.

*

Le mani che di giorno hanno picchiato
al buio le giunge in preghiera.
Zebù bambino si finge pio.
A cavalli di vetro soffiato
stringe la fragile criniera.
Gioca ai funerali di dio.

*

Talvolta se ne sta solo
ginocchia sotto il mento
in cima ad un pensiero
battuto dal vento.
Nessuno lo vede e piange
nel silenzio che fa spavento.
Lacrima zolfo, il piccolo Zebù
gocce che sfrigolano
cadendo giù.

*

Diventerà un bel giovane
il piccolo Zebù.
Presto farà breccia
nel cuore di Gesù.

*        *        *

Davide Cortese è nato nell’isola di Lipari nel 1974 e vive a Roma. Si è laureato in Lettere moderne all’Università degli Studi di Messina con una tesi sulle “Figure meravigliose nelle credenze popolari eoliane”. Nel 1998 ha pubblicato la sua prima silloge poetica, titolata “ES” (Edizioni EDAS), alla quale sono seguite le sillogi: “Babylon Guest House” (Libroitaliano) “Storie del bimbo ciliegia” (Autoproduzione), “ANUDA” (Aletti). In seguito ripubblicato in versione e-book da Edizioni LaRecherche.it, “OSSARIO” (Arduino Sacco Editore), “MADREPERLA” (LietoColle), “Lettere da Eldorado” (Progetto Cultura), “DARKANA” (LietoColle) e “VIENTU” (Poesie in dialetto eoliano, Edizioni Progetto Cultura). I suoi versi sono inclusi in numerose antologie e riviste cartacee e on-line, tra cui “Poeti e Poesia”, “Poetarum Silva”, “Atelier” e “I fiori del male”. Nel 2004 le poesie di Davide Cortese sono state protagoniste del “Poetry Arcade” di Post Alley, a Seattle. Il poeta eoliano, che nel 2015 ha ricevuto in Campidoglio il Premio Internazionale “Don Luigi Di Liegro” per la Poesia, è anche autore di due raccolte di racconti: “Ikebana degli attimi” (Firenze Libri), “NUOVA OZ” (Escamontage), del romanzo “Tattoo Motel” (Lepisma), della monografia “I MORTICIEDDI – Morti e bambini in un’antica tradizione eoliana” ( Progetto Cultura), della fiaba “Piccolo re di un’isola di pietra pomice” (Progetto Cultura) e di un cortometraggio, “Mahara”, che è stato premiato dal Maestro Ettore Scola alla prima edizione di EOLIE IN VIDEO nel 2004 e all’EscaMontage Film Festival nel 2013. Ha inoltre curato l’antologia-evento “YOUNG POETS * Antologia vivente di giovani poeti”, “GIOIA – Antologia di poeti bambini” (Con fotografie di Dino Ignani. Edizioni Progetto Cultura) e “VOCE DEL VERBO VIVERE – Autobiografie di tredicenni” ( Escamontage ).

© Fotografia di Alessia Siano