COAGVLA IV – Isacco Turina, “Non come luce” (Terra d’ulivi Edizioni, 2022)

A cura di Carlo Ragliani

Contrariamente a quanto esposto altrove[1], non riteniamo che sia argomento di interesse una speculazione ideologicamente orientata; al contrario, è nostra opinione di tenere in debita considerazione che la critica letteraria stessa non debba cedere alla tentazione di una speculazione autoriferita, come d’altro canto il critico non debba prostrarsi alla lusinga di specchiare sé stesso nei testi altrui.

Che Turina, poi, intenda esporre una lettera essenzialmente fideistica, allineandosi a quella cordata proto-teologia di origine giudaica della poesia dei nostri tempi, è certo cosa da dimostrare. Questo perché, se è chiaro che ci siano delle congerie afferenti ad un macrocontesto culturale di matrice religiosa, non si può supporre che vi sia contestualmente una tensione mistagogica in “Non come luce”.

Anzi: se è vero che la propensione oracolare, e profondamente profetica, del verso del nostro profondi una cifra stilistica identificabile secondo studio e tradizioni, contestualmente possiamo ritenere che il nucleo sostanziale dell’opera stessa protenda a fornire un quesito sottile, e taciuto al contempo.

Il che ci conduce a quell’istanza crucis essenziale, e prodromica, alla comprensione dell’opera: se è vero che l’illuminazione pertiene alla grazia, come è possibile dunque che la poesia conceda uno sguardo che entri nel dramma dell’umano, e si infigga in quanto disgraziato, dolente e angosciato? Di più: come è possibile che un testo fideisticamente propenso alla grazia produca un dettato sostanzialmente amaro, invece di una poesia che risollevi, e consoli l’afflizione comune dell’umanità?

Parrebbe quindi naturale escludere ogni correlazione concettuale con un sistema imperniato sulla teodicea, così come potremmo piuttosto risolvere la questione nei meriti dell’erudizione del nostro; e cioè dedurre che le istanze riguardanti la devozione siano elementi di mero studio, ovvero di interesse sociologico ed antropologico, piuttosto che un interessamento da intendersi concretamente religioso.

Tanto che il poieo di Turina fa arretrare il lettore nel cantone più angusto, al confine del difetto che incarna l’umanità ed il suo paradosso.

Che poi, per di più, il poeta interroghi “la sentinella”[2] ci pare cosa ben al di fuori degli intenti del dettato, tanto che l’autore ammanisce nel suo poetare (dalle tinte delicate) una realtà disperata, incapace di fornire una risposta concreta ad ogni qualsiasi domanda, ed al contempo inadeguata a procurare un progetto credibile e consolidato in termini di compattezza ed esattezza.

Sono il biasimo sottaciuto col profondo disinganno, unitamente al disprezzo ed al disgusto verso ciò che siano divenuto l’uomo e l’umanità, le sostanze che avvelenano l’occhio del lettore; e ciò che colloca la poesia di Turina alla fine delle fine; oltre il confine dell’atteggiamento filosofico nichilista (attivo o passivo che sia) o cinico.

Invero il nucleo della realtà sondata si dimostra foriero di una berciante insufficienza di dignità autonoma, e completamente immerso nella sua sofferenza di essere giunto al confine ultimo della propria incapacità di assoluto; tosto che una cosmogonia di speranze, e necessità di salvazione pretestuose.

Finezza, si diceva: perché in questo disporsi crudele della versificazione le istanze cruciali dell’opera rivelano tra le spine rose meravigliose di sublimità.

Infatti, lo slancio tonico verso l’ineffabile di Turina parrebbe associabile alle visioni dei credenti mistici più ardenti (sempre forzando la mano nell’analogia, certi di star cadendo di proposito in contraddizione con quanto detto in precedenza); non fosse che l’impianto filosofico rende l’impressione di essere più proteso al plotinismo/neoplatonismo, con alcune deviazioni nel Corpus Hermeticum del Trismegistro.

Ma è un inganno, perché il suo poetare tende piuttosto ad assimilare la koinè del simbolico, e della tradizione poetica più nobile.

Nell’elaborato gli epifenomeni e gli avvenimenti sono stretti da un legame oscuro, di cui la poesia ne è rivelazione essenziale; non di meno, potremmo dire che la versificazione del nostro dimostra le affinità occultate dalle apparenze sensibili della realtà, ed il canto esiste come mezzo di sapienza per afferire e condividere le idee primordiali.

Per questo potremmo anche asserire che la gloxa del nostro intenda il linguaggio della realtà profonda, il messaggio segreto dell’episteme, e l’essenza invisibile che permea il sapere certo dell’universo.

Il che, a dir nostro, manifesta che l’ideologia fideistica sia argomento di sola veste (se verificabile), e non di realtà materialmente accertata; una speculazione che rimane tale, dal momento che in effetti la nominazione divina si dimostra più un elemento qualsiasi, e non di certo dignificato, nel testo e nel sotto-testo.

Non per nulla si potrà chiosare il discorso tematico dicendo che la parola del veronese sia coacervo di conoscenza di una poesia alta e consapevole, e perciò acuto rivelatore di quelle tracce dell’inesprimibile che affiora ovunque: la sua poesia riesce a stare in equilibrio sul sottilissimo filo che collega ciò che è possibile dire all’indicibile.

In forza di questo, rimanendo sul versante stilistico, incontriamo una parola che procede visualizzando tosto che istituendo nominazioni, e sempre protesa ad un ricercatissimo equilibrio tra figurazione metaforica ed astrazione, tra esposizione gnomica ed inquisizione verso quell’interlocutore sotteso ai versi.

L’utilizzo del correlativo oggettivo – che risulta, ad onore del vero, sfortunatamente svuotato di densità semantica in talune circostanze, probabilmente per ricercare quell’equilibrio tra graves e levitas di cui poco prima – ricorda molto un certo Montale, ma sorride ampiamente anche ad autrici del calibro di Gualtieri, soprattutto nell’elemento luminoso che affiora (tendenzialmente come antifrasi, ovvero per negazione) e sparisce per riaffiorare successivamente, lungo tutto il testo.

Concludendo: tra immateriale e concretezza, la qualità sostanziale del verso si snoda intersecando delicatezza e materica pesantezza, ed intrecciando la partecipazione emotiva allo stupore dell’istante poetico; la cui raffigurazione (spesso) simbolica sembra venata di una disperata sensazione di struggimento, commozione, e trasfigurazione dei singoli elementi circostanziati nel semantema.

 

Carlo Ragliani

 

*        *        *

 

 

*        *        *

 

Dimmi il fiore che porti nello stomaco
che porti nella mente.
Fiore scuro di paura
fiore giallo dello sforzo
fiore bianco dell’attesa.
Dimmi l’insetto che ti ronza intorno
la cicala che stride nell’orecchio
la sapienza del ragno che ti abita.
La forma che tu vedi è una follia:
sotto la giusta ombra intimamente
si muovono i giardini inconsapevoli.

 

*

 

Da una bocca qualunque ascolteremo
la frase che ci annienta per bellezza
o crudeltà e porteremo sempre
in noi come una vecchia sentenza
che rilascia nel tempo la condanna.
Cibarsi d’ombre fino a quando
sia luce tutto intorno
è ancora il congedo più bello.

 

*

 

Dopo tutto

 

Verdi catastrofi lontane,
vi guardiamo da dietro l’orizzonte.
Quando il dente è penetrato
siamo passati su un ponte sottile.
Barche infinite attendono
per navigare la penombra.
Con un colpo di remo gli equipaggi
si staccano da riva.
Nella cisterna ovale del tempo
rimbombano le gocce, rare
come parole berbere.
E del tempo più nulla sappiamo.

 

*        *        *

 

Isacco Turina è nato a Villafranca di Verona nel 1976. Vive a Firenze. Ha pubblicato il volume di poesie “I destini minori” (Il ponte del sale, 2017) e la raccolta di racconti “Elogio delle merci” (Coazinzola press, 2018).

 

Carlo Ragliani (Monselice, 1992) è Redattore in Atelier Cartaceo, e Caporedattore in Atelier Online. Ha pubblicato Lo stigma (italic, 2019).

 

[1] Nello specifico, nell’articolo “Isacco Turina | Non come luce” di Giuseppe Martella; apparso nel litblog di poesia Inverso; consultabile presso il link: https://poesiainverso.com/2022/02/16/isacco-turina-non-come-luce/

[2] Su questo, Antonio Fiori nella sua recensione pubblicata in “La poesia e lo spirito”: https://www.lapoesiaelospirito.it/2022/01/30/isacco-turina-non-come-luce-recensione-di-antonio-fiori/