Me la provi me la provi?
“Me la provi, me la provi?”
Sono poesie per bambini, genitori, nonni, o forse per nonni, genitori, bambini, cioè cominciando dai nonni. Perché sono loro, i supposti smemorati, a ricordare meglio di tutti quel “me la provi me la provi?”. Chi li batte in memoria poetica? Le loro infanzie sono state tallonate da poesie da studiare a memoria (qualcuno diceva da “mandare” a memoria, i francesi dicono par coeur). Le case all’ora di cena risuonavano di queste richieste rivolte dallo scolaro a chiunque gli capitasse a tiro, madri, padri, fratelli, sorelle che finivano poi per impararle loro stessi, volenti o nolenti. Echi di versi che, di quando in quando, raccolte come questa tentano di risvegliare (“le pargolette mani”, “le nonne Lucie”, “me ne andavo un mattin a spigolare”, “eran 300 eran giovani e forti”…) così che il sassolino 1 lanciato nello stagno diventi 2, diventi 3, 4 cerchi, stupisca di nuovo l’acqua e tutta l’aria intorno. Se quel grande coro che la scuola ha colpevolmente imbavagliato (perché? Ci dicano almeno un perché; ci sarà tra voi un maestro o una maestra che lo libererà?), se quel grande coro potesse di nuovo risuonare nelle aule e nelle case? E nel silenzio delle stanze zitte, nelle teste dei bambini chini sulle proprie mani, mani diventate porta-cellulari, micro cinemini deserti, con un solo sparuto spettatore. Echi di versi (“dagli atri muscosi dai fori cadenti/ dai boschi dall’arse fucine stridenti”) che recitavamo a ritmo variabile, ora precipitosi, ora esitanti, ora nel panico del buio pesto della smemoratezza, a volte soccorsi in extremis da provvidenziali compagni suggeritori, a volte illuminati da apparizioni improvvise, eccola lei “alta, solenne, vestita di nero, nonna Lucia”. Più di tutto mi piaceva il “deh”: “o nonna, o nonna! deh com’era bella/ … ditemela ancor/ ditela a quest’uom savio la novella/ di lei che cerca il suo perduto amor!/ Sette paia di scarpe ho consumate/ di tutto ferro per te ritrovare/ sette fiasche di lacrime ho colmate/ sette lunghi anni di lacrime amare…”. Gli scolaretti recalcitranti che siamo stati mi diventano oggi nel ricordo bambini stregati incantati, come se durante il loro recitare davvero rifiorissero “i verdi melograni dai bei vermigli fior”. Sì, ci apparivano nonne e anche madri: eccola quella pascoliana: “Mia madre era al cancello./ Che pianto fu! Quante ore!/ Lì sotto il verde ombrello/ della mimosa in fiore…”. “Era la casa avanti, tutta fiorita al muro”… Black out: fiorita di cosa? “Non suggerite” diceva la maestra, ma noi suggerivamo lo stesso, bastava l’aiuto di una parola e l’interrotto organino a manovella riprendeva, la casa “avanti” era tutta fiorita “di rose rampicanti”. Ma come facevano le rose ad arrampicarsi ci chiedevamo. Poi c’era San Martino. Roberto Denti ricordava (in Tamo, pio bove, Feguagiskia’ studios 2000, a cura di Barbara Schiaffino) che nel suo libro di lettura non avevano stampato l’ultima strofa, considerata troppo difficile per degli scolaretti. Così “il cacciator fischiando”, privato degli “esuli pensieri”, restava lì “sull’uscio a rimirar”. A rimirar che cosa allora? A proposito di “T’amo, o pio bove”, ancora sorridiamo con il “T’amo o pio bue/ anzi ne amo due” di Toti Scialoja. E che meraviglia quella sua gatta che “sulla tettoia passava senza peso”. Gioielli i versi di Giovanni Raboni Dal quaderno di aritmetica del gatto Pastrocchio. Furono anche musicati dal Maestro Irlando Danieli, per coro di voci bianche, flauto e archi. Mi viene in mente infine il gatto Uttino di Zanzotto, nei versi per il suo nipotino (con il mio Ignazio sta protestando per la non inclusione). Ancora qualche eco dal passato, echi cupi… “Il morbo infuria, il pan ci manca/ sul ponte sventola bandiera bianca!” E poi quel celebre “Ei fu.”: ci meravigliava tanto quel punto. Come mai dopo sole due parole? E ci affascinava quel “mortal sospiro” ma quell’“orba”? che orba? E quale “spiro”? Tra gli echi di versi poetici ci si infilava a volte anche altro nelle orecchie: per esempio ariette di ninne-nanne (“fate la nanna coscine di pollo/ la vostra mamma vi ha fatto il gonnello”) oppure dalle porte spalancate delle
chiese ci raggiungevano ventate di canti mariani (“mira il tuo popolo, o bella Signora/ che pien di giubilo oggi t’onora./ Anch’io festevole corro a’ tuoi piè;/ o Santa Vergine prega per me!”). Oppure all’improvviso dal “Corrierino dei Piccoli” sbucavano i distici ottonari di Sergio Tofano (“Qui comincia l’avventura/ del Signor Bonaventura”). Insomma rime di ogni genere incalzavano le nostre infanzie, cui si sarebbero poi aggregati, dal 1957 in poi, i ritornelli mercenari di Carosello che nessuno ci insegnava ma che tutti al volo imparavamo e da pappagalli ripetevamo. Una pappagallaggine che da allora non ha più avuto fine. Avendo io i capelli bianchi quasi quanto quelli di Nicola Crocetti, avrò forse, avremo forse insieme volto lo sguardo più alle voci del passato che a quelle del presente? Hanno negli anni avuto tempo di mettere in noi radici più lunghe quel “verde melograno/ da’ bei vermigli fior”, quei cipressi “in duplice filar”? Nelle librerie tanti giovani autori per l’infanzia attendono di essere scoperti. Ai bambini d’oggi saranno loro a far da eco: che responsabilità bella. Questa raccolta è solo una fettina di una grande immensa rossa anguria: lo so, non è piacevole scorrere l’elenco cercando il proprio nome e non trovarlo. Ci si resta male, anch’io l’ho provato varie volte (e anche qui!). Ogni volta che non ci troviamo proviamo una vertigine come davanti a un vuoto: ma come? Io che credevo di aver tanto scritto, invece forse non ho scritto niente? Ci sarà un seguito? Un’altra opportunità? E Rodari? Il più grande di tutti? Che siamo tutti suoi figli? È assente anche tutto il grande coro degli autori stranieri, con la sola eccezione della bella voce greca di Pandelìs Bukalas che dobbiamo naturalmente a Nicola Crocetti.
Vivian Lamarque
Pierluigi Cappello
(1967-2017)
La noia
Una volta ogni bambino
con la pioggia si annoiava
ed il tempo malandrino
rallentava e si fermava:
i secondi andavan lenti
come in groppa a un lumacone,
i minuti eran prudenti
quanto un vecchio col bastone,
come stanche tartarughe
camminavano le ore
e crescevano le rughe
sulla faccia del torpore.
Stare a casa mentre piove
non è affare di bambini:
l’aspra noia non si smuove,
è un macigno con gli uncini.
Ma poi ecco all’improvviso
che quel giorno spento e stinto
dava vita ad ogni viso
e la gioia aveva vinto.
Una scatola di scarpe
diventava un bel fortino,
un gomitolo di sciarpe
un turbante levantino,
un cuscino come scudo
ed un mestolo per spada
e il bambino seminudo
era un capo di masnada.
Pochi oggetti, poche cose
ma ben dentro i giorni spenti
rinascevano le rose
dando luce ai quattro venti,
ché la figlia della noia
manda via malinconia:
lei è bella, lei è una gioia,
lei si chiama fantasia.
***
Antonia Pozzi
(1912-1938)
Pudore
Se qualcuna delle mie povere parole
ti piace
e tu me lo dici
sia pur solo con gli occhi
io mi spalanco
in un riso beato
ma tremo
come una mamma piccola giovane
che perfino arrossisce
se un passante le dice
che il suo bambino è bello.
***
Roberto Piumini
(1947)
La mamma
C’era una volta che io non c’ero,
non ero falso, non ero vero,
non ero bianco, non ero nero,
c’era una volta che io non c’ero.
C’era una volta una donna paziente
che prese un seme e gentilmente
lo covò in pancia tranquillamente,
c’era una volta una donna paziente.
C’era una volta una donna brava
che aveva il latte e me lo dava,
che aveva i baci e mi baciava,
c’era una volta una donna brava.
C’era una volta una donna di dono,
una persona dal nome buono,
nome dal dolce pacifico suono:
c’era una volta che adesso ci sono.