Anila Hanxari, Prismanima (Terra d’ulivi, 2023, collana Deserti luoghi) – Recensione di E. Canzaniello

Del prisma questo libro contiene la moltitudine, la forma che include altre forme che sempre si trasformano davanti allo sguardo, fino a perdere la percezione che ad esistere sia uno sguardo unico e unitario. Il libro di Anila Hanxhari non ha sezioni o parti o altre articolazioni interne visibili. Come un prisma non può essere afferrato in quel modo, né fissato da un lato per volta, nessuna faccia può essere isolata. In ogni testo e in ogni verso si riflette questa dinamica essenziale; una struttura franta e prismatica delle immagini, e di ogni singolo verso, costruito su passaggi di stato cangianti, in cui materia e anima, esperienza e previsione, tutto si accosta, si sfiora e muta forma l’uno nell’altro stato. La poesia di Hanxhari fa dell’effetto prismatico una tensione, una costante annessione di tutte le cose, dei legami costretti o spontanei di tutte le particelle e le energie, “con la connessione dei respiri”. L’effetto prismatico si estende a tutti i tempi della storia e ai tempi di tutte le storie, dall’Albania della sua nascita all’Italia (“A diciotto anni arrivai in Italia clandestina”) della sua lingua letteraria (“in quale lingua stinge la luna”), dalle scorie di ogni esistenza e rovina alle correnti celesti e ignote. Sembra lottare con “il profilo europeo della rosa”, questa irricostruibile ipotesi di un atlante e di una storia, in lotta per un ritorno, un indefinito ritorno che forse sembra “lo slancio vitale l’antica via di dio” accettando che “la morte non è vuoto o clessidra”. “Cerchi Uno nell’amore o nell’attrito” ci ricorda questo vortice prismatico, e il suo verso simula l’amore e l’attrito nella tensione di mantenere l’Uno nel pensiero. Nel prisma Uno non c’è un centro, come nella geografia della visione dei mistici o dei fisici, e così in questo libro-poesia, in questa confessione-preghiera a un tu padre (“vivo con mio padre nel diadema”), spesso convocato e recitato nelle ripetizioni. La storia, i crolli del comunismo ad est (“Ho visto la caduta del comunismo/in Albania”), le migrazioni recenti e presenti, la visione verticale e mistica, l’amore della carne e del morire guardano dalle facce di questo prisma, sempre ritornanti, sempre risorgenti. Fino al “brindisi con il diavolo e l’angelo” tutto dovrà essere consumato fin lì, fino all’ultimo fondo, fino “al termine della carne” quando l’unica scoperta dell’eterno residuale sarà che “il desiderio è perenne mancanza” e sembra agitare qualcosa di più essenziale della storia, del cangiante prisma stesso di “un uomo e una donna”. Perché “il corpo è diramazione del sole” e la poesia di Hanxhari vuole farsi corpo e offrire al corpo una unità antica, un logos è anima del prisma, qualcosa che resti e ritorni nella storia come “le felci su Hiroshima” sono tornate. “Cavi detriti di cielo” fanno l’intero orizzonte degli eventi, di ogni cosa in questa scena, eppure permane la domanda al padre “l’evoluzione della vita ti chiedo”. Qui si chiede “la Dna nella parola” vale a dire “l’uomo nell’uomo” o “la ghianda nella ghianda” di preghiera in preghiera evolvendo il linguaggio, questa “veduta della libellula” che ci offre di ri-vedere “i muri dell’eden” o “il volto di Iside” per riconoscere che siamo e vibriamo come “ispirazione di stringhe e vicende”, moltitudine di stringhe e vicende, tutte contenute nel prisma, tutte visibili nel prisma, come ogni passaggio di luce e lì “dove c’è una luce bellissima sul verde” dove lei, voce e verso, “accompagna all’amore i tristi”. Quegli uomini che non sanno più che “L’amore è sentire le cose/come gli alberi” e che “tutto va a loro”. C’è in questo grido della Hanxhari un rifiuto di morire nella mancanza, nel mondo disarticolato e mai più Uno. Il prisma sembra essere lacerazione e contenimento della lacerazione che investe le cose nella nostra modernità in cui “tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria” secondo la celebre formula di Marx contenuta nel Manifesto. Al centro di questo prisma di tensioni un ordine della mente, “L’ordine della mente è la virtù/e solo la virtù è gioia/che fa tornare luce l’albero”, la mente che conserva, non cancella, e nella poesia sembra conoscere “l’innesco della premura del tempo”, lo stare delle cose nella loro regione propria, nell’antica unità del logos. Eppure “il tempo ti è breve ed eterno amica/sei l’incontro amoroso tra due fiori/il messaggero di dio” ma anche “l’occhio del grido”. Una poesia di visione eppure di grande precisione, rapidità, precisione e tagli, da una sequenza all’altra, da un codice all’altro, all’interno di ogni singolo verso. Una poesia di cemento e resina. Di una immaginazione violenta che onora “la libertà che mi è stata data/è un impasto che ama le mani di casa/appartiene all’Uno non al branco”.

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