La poesia come discesa agli inferi: da Virgilio ad Airaghi sul mito di Orfeo ed Euridice

A cura di Alice Serrao

 

“Sei venuto a riprendermi, Orfeo malato, […] /portami con te, non voltarti, / conducimi alla luce del giorno / portami con te, non lasciarmi.” Cantava Carmen Consoli nel 2000, in un testo intitolato “Orfeo”, dove però, in realtà, è Euridice a parlare. Ella incalza da subito il poeta, portando al centro una questione fondamentale: qual è la sua missione? cosa è venuto a fare Orfeo nell’Ade, il luogo che tutto nasconde alla vista: “sei venuto a convincermi o a biasimarmi” per ciò che ancora non ho imparato? Già, perché Euridice è “incauta”, “immanem ante pedes hydrum moritura puella / servantem ripas alta non vidit in herba” (Georgiche IV, vv. 457-58), non ha prestato attenzione al serpente in agguato tra l’erba, mentre, trafelata, tentava di sfuggire al pastore Aristeo. “Incautum”, invece, per Virgilio è Orfeo, che sempre nelle Georgiche 1 , è definito “incautum…amantem”, con il participio che prende rilevanza a fine verso, illuminato dall’iperbato. Quello che è certo è che entrambi, Orfeo ed Euridice, sono incauti per amore, come già era successo a Didone (si veda in Eneide, IV vv. 69- 70 “qualis coniecta cerva sagitta, /quam procul incautam”), anche lei intenta a sfuggire a un pastor.

 

Verrò a prenderti, cara, verrò
a liberarti, Euridice sprofondata
in un sonno ingannatore; mia malata,
rinuncerò a curarti, se vedrò
che ti avvolgi in un buio profondo.

 

 

Orfeo, con un felice parallelismo lessicale, risponde dai versi del poemetto Euridice di Alida Airaghi, inserito nella raccolta “Litania periferica” ed edito anch’esso nel 2000 da Einaudi. Orfeo intraprende la catàbasi, la discesa agli Inferi, per riportare la sua sposa alla luce del sole, facendo dunque riemergere Euridice dal regno delle ombre. E’ questo il suo compito, il suo desiderio.

 

Io ti scuoto e ti scuoto, Euridice,
non è possibile che non mi rispondi
lì dove sei finita e ti nascondi,
tornata sottoterra, mia radice.
E’ uno scherzo, non può essere vero

 

 

Orfeo non si rassegna alla perdita: il cantore capace di muovere a compassione gli animali e le pietre, non si rassegna alla fine dell’amore, alla perdita dell’amata, a cui si sente indissolubilmente legato e che considera “radice” essenziale della sua vita. La parola “sottoterra” perde provvisoriamente la connotazione negativa, l’allusione feroce all’aldilà, la colpa della sottrazione, e insieme a quel “tornata” assume un valore più intimo, di protezione e tenerezza. Euridice è adombrata dove comincia e finisce la vita, nel grembo-terra. Si comprende, allora, il ribaltamento che la poetessa Airaghi attua rispetto al mito classico: infatti, la sua Euridice non grida e non tende le palme, come quella virgiliana, “feror ingenti circumdata nocte / invalidasque tibi tendes, heu non tua, palmas”; impossibile qui non sentire la vibrante ansietà dell’abbandono nell’allitterante suono delle t, che congiungono il “tua” al “tibi”, alla tensione del “tendes”. L’Euridice del poemetto resta immobile, quasi indispettita, ritrosamente offesa come la Didone del VI canto, quando viene scorta da Enea: “illa solo fixos oculos aversa tenebat / nec magis incepto vultum sermone movetur / quam si dura silex aut stet Marpesia cautes. / tandem corripuit sese atque inimica refugit / in nemus umbriferum” (Eneide, VI vv. 469-473).

 

Per questo alzati, cara, non fingere
un silenzio adirato, accusatore.
Non restartene lì come una sfinge.

 

Se nella canzone della Consoli, è Euridice a desiderare ardentemente la rinascita, a sentire già prossimo il calore del varco, nel poemetto dell’Airaghi leggiamo “purché tu, semplicemente, sia / rimarrò muto, cieco e sospeso /vivendo viva e vera la magia // del tuo ritorno: impazienza di averti, avendoti preteso, mia ombra inconsistente, mia esistenza”. Euridice è necessaria al poeta, che pur di riaverla, è disposto a scendere a patti con gli déi, “a fare una promessa, / barattando il mio sguardo col respiro / di te viva”. Allora, perché si volta? “Quis et me – inquit – misera et te perdidit, Orpheu, /quis tantus furor?” chiede l’Euridice virgiliana, con l’anafora del quis che conferisce drammaticità struggente alla domanda. Su questo interrogativo si sono, nei secoli, sviluppate diverse interpretazioni critiche, che hanno dato luogo a svariati esiti, tra cui “Il ritorno di Euridice” di Bufalino, in cui la sua Euridice si convince che Orfeo si sia voltato apposta, per avere, nel dolore rinnovato della perdita, materia poetica per il proprio canto:

«L’aria non li aveva ancora divisi che già la sua voce baldamente intonava “Che farò senza Euridice?”. L’avverbio baldamente oltremodo efficace a rendere l’atmosfera. Virgilio, nella versione classica del mito, invece, aveva attribuito il gesto all’errore incauto dell’amante, al furor, passione che acceca e che rende Orfeo “immemor heu!”. Una follia perdonabile, commenta Virgilio, se gli dèi sapessero perdonare: “ignoscenda quidem, scirent si ignoscere Manes”. Ma rotti i patti, Euridice è obbligata a tornare indietro: “namque hanc deserta Proserpina legem” chiosa senza appello Virgilio, “En iterum crudelia retro /fata vocant”. E’ Euridice, però, che dischiude la bocca al perdono nella versione ovidiana delle Metamorfosi.

 

La questione tuttavia resta irrisolta: perché Orfeo si volta? Leggendo il poemetto di Alida Airaghi non sembra plausibile che il poeta si volti perché non si fida di Proserpina, dal momento che dichiara: “segui ubbidiente il mio passo stanco // e nel tuo passo leggero ti ascolto”: sente, dunque, la sua sposa seguirlo lieve alle sue spalle, dice apertamente: “Ecco, ti sento, ci sei e sei vicina. / Ma non ti guardo, taccio, sono bravo.” E ha bisogno di Euridice per sentirsi nuovamente intero, dunque non si volta per baldanza: “Ti scongiuro, signore dell’abisso, / ti imploro, lascia che ritorni / a fare uno di me che sono scisso.”. Fino agli ultimi due versi del IX sonetto, l’ultimo del poemetto, si potrebbe davvero pensare che Orfeo sia solo incauto, ma qui il testo sorprende il lettore:

 

“Tu, trasparente pensiero di vetro:
voglio appannarti. Ecco, mi volto.”

 

 

Ecco allora che Orfeo si volta mosso non da un errore, ma da una precisa volontà di “appannare” l’amata, forse perché animato dall’improvvisa consapevolezza che essa appartiene al passato e che dunque è giusto che essa resti tra le ombre, come già pensava Pavese.

 

Di certo non avrei mai creduto
di afferrare l’esistente con un dito:
se mi sento diventare infinito
e poi limite e fine, sordo e muto.

 

 

A una nuova rilettura, allora, capiamo che Orfeo, poeta per eccellenza , intraprende la catàbasi, la discesa nel mistero della morte, perché non può non fare i conti con l’aldilà, come ogni uomo. La poesia, che esso rappresenta, non può non fare i conti con il desiderio di conoscere e di spingersi oltre (si vedano ancora Georgiche IV, transire paludem). La poesia pare così portarci molto vicino alla salvezza, dopo averci inabissato e fatto “diventare infinito”. Ma il portitor Orci non lo permette, non è possibile arrivare a portare a piena luce (superas veniebat ad auras) il mistero, orfico appunto dell’esistenza, perché il tentativo è vano e fa “poi” inevitabilmente i conti con il “limite”.

 

 

 

Alice Serrao

 

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© Fonte fotografia: Pixabay

 

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1 Per le citazioni virgiliane si veda Georgiche, IV vv. 451-527.