Ampiamente descrittivo, ed al limite intrinseco tra bizantinismo ed esornazione, il verso di Restaino – nel suo testo Contrada dello zodiaco – sembra interrogare una realtà in bilico tra idealizzazione e povertà materiale, i cui effetti coniugano meraviglia e disincanto.
Il testo incarna una poiesis dal fare tanto vaticinante, quanto almeno assolutamente convinto della precarietà e bassezza del reale che si squaderna innanzi agli occhi del poeta.
L’aspetto formale del testo sembra incedere piegando alla propria necessità narrativa il dettato, spingendosi verso la zona prosastica della descrizione narrativa; tant’è che il vasto lirismo del Nostro incarna un afflato oratorio, la cui posa sembra essere intesa ad un recupero – fondativo ed archetipico – di un modello primariamente culturale dell’ars poetica.
La conseguenza è che l’ego-scriptor si consegni impegnato in una ricerca contestualizzata nella via dell’exemplum sapienziale, e perciò ispirato; contrapposto ai ben più frequentati topoi di poesia-urgenza e canto-necessità.
Perciò il dettato del nostro si estrinseca in una forma retorica personalissima, e tutt’altro che affetta dal morbo del bisogno: un afflato espirato sulle braci della contemplazione e della rimembranza.
Infatti la coscienza poetica del testo si getta in un fare pristino, autentico, ed autoritario.
L’esito di questo si materia in una parola che si dispone diegetica con la realtà di cui fa esperienza, con la caratteristica estrinseca di essere sardonica talora, e paradossalmente scanzonata o canzonatoria in certi componimenti.
Infatti, spesso il dettato sembra offrire un sorriso di tolleranza imposta, mal celando un aristocratico disgusto, verso la congerie urbana e la sua umanissima maculazione di miseria.
Concludendo: Contrada dello zodiaco di Restaino difende l’ispirazione che si cela e si mostra entro il symballo, come pratica divinatoria ed oracolo di una poesia che sa guardarsi terga ed innanzi al contempo.
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Antesaecula
Prima probabilmente c’era
questa vertigine oscura e festosa,
che ritorna sempre a suonare
nei vuoti ricorrenti del cuore,
e che ora mi ha finito.
Arrivo adesso dal macello;
eppure umile al cospetto
della vena nascosta che mi agita,
mi inchino a te e a Napoli,
con gesto secentesco, riverente;
a Santa Maria Antesaecula una radio
fragorosa sbalordisce il vicolo
fondo di profumo aereo, sereno,
e sventaglia i colombi verso il cielo.
Arrivo trafelato e ti ritrovo
disegnata sul foglio del lenzuolo
a contorni nettissimi: la cifra
dei giorni sudati e cercarti il sole
che cade tra le case,
per portartelo racchiuso
in un racconto fresco di veranda.
Esattamente sei come sapevo:
conservi nel tuo alito marino
la polpa sanguinosa della festa,
il suo miracolo, dove più oscura
e si consuma eccelso il tuo spettacolo.
In genere la nube delle foglie
che ti seguono in larghi mulinelli
ti preannuncia dal fondo della strada,
fasciandoti le gambe tempestose;
le cose perse sono quelle cose
che ti aspettano alla fine.
Ho il mio bel da fare a misurarti
la pelle ronzante di sale,
in linee bianche come calce,
sveglia dalle lune delle unghie;
ti ammirerò sempre perché insegni
la notte, la terra calda e le urla,
mi consegni attonito alla vita
vera, che palpita ubbidiente
alle tue ciglia, da cui pende,
grata immensamente:
dei caldi, e dei pugni, di ogni cosa.
Oscena strenua necessaria sposa.
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Sangue di pesce
Perso in un sogno di alghe fangose
di nenie marine muggite da conchiglie
modulo il respiro sulla nettezza
Urbana, industriale passacaglia
che passa quando passa, e quando passa
misura la distanza, fa da sonar.
Solo in città fra case e chiede chiuse
che fanno ‘ciao!’ lontane e vanno al mare:
ferie pagatissime e per di più salate
come l’acqua in cui cuocio le mie muse
che più che muse son sirene. Sapevate?
Provengo da una schiatta di guardiani
di castelli, pigri manutentori
di fari inutili alla baia: sento
le colline e sento il mare, avvinto
al mescolarsi di odori degli avversi
ristoranti al mio balcone. M’imbevo
di gin tonic, cerco svaghi, intercetto
i miei vicini che escono a fumare
sospettoso che sappiano anche loro
il segreto del nostro meridiano.
Uno ne chiamo; e con la mia, di brace
gli presento l’inedito fenomeno
che sette notti ormai mi tiene sveglio
(e intanto, con il filtro, fiero gl’indico
come fosse un prodotto del mio ingengo):
«Vedi quanto di sinistro è nelle stelle?
Non dire sembra, la luna è proprio strana;
esce da una quadrante della grata, piglia
un’altra direzione, ha traiettorie ottuse».
Il vicino da tempo ormai mi teme,
cauteloso mi chiacchiera, rincula
sul tempo inoffensivo da parlare:
esalante il caldo, stagnante il cielo
immensa ragnatele siderale.
Parlo del naufragio dello Stabia primo,
che tra poco ritorna capo d’anno,
segno a dito il punto del relitto
che giace dritto a dieci braccia
motori rovolti alla tempesta:
i nomi sono quelli e sono dodici.
Conosco già le notti come questa:
un taglio vedere solca la pupilla
il respiro si spezza sottopelle
si rompe in bolle d’aria, chiede branchie.
Lampeggianti di ambulanze, anidride
solforosa, buio ai margini e una rosa
mi è sbocciata fuori tempo nel giardino.
Notti come questa, solo sangue di pesce
ho nelle vene. Poco il vento, stento.
Tribolante la sera di sirene.
*
Cervus
Quoque anno novus aster apparet,
sicut cuspides in cornubus cervi.[i]
Improvvisa sulla statale al bosco
precipita l’immagine di un cervo,
esemplare come può esserlo un demente
che, svegliatosi sul ciglio del reale,
confuso ferma il traffico agli incroci
del centro, con le mani. Di traverso
spostava veloce il peso tra le zampe,
sbuffava contromarcia nel crepuscolo.
Ogni cosa accade una volta sola,
sempre la prima. L’esperienza è solo
un’approssimazione confortante
ed accettare il forse inevitabile.
Così agitava a lievi scosse il palco
a indicare di seguirlo, o a mostrare
il cielo, tutti inviti che abbiamo
comunque disatteso. Il divino
perde presto interesse per chi pensa
e ride ad altro che alle cose vere,
e in genere è questo ci salva.
Un breve salto lo ha portato oltre
il guard rail, a seguirci poi per scarti
e balzi tra gli alberi, prima di buttarsi
per sempre da un lato, tra le foglie,
a infestare ore, giorni e cose d’altri.
Potrebbe starci qui un insegnamento.
Ma non è un cervo solo un cervo, o un
cantare all’irripetibilità?
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Angelo Restaino, di origini irpine, è nato a Salerno nel 1982. Ha vissuto a Catania e si divide ora tra Salerno, Roma e Pescara. Di mestiere paleografo e archivista, dopo aver lavorato per diversi anni come freelance, è attualmente in servizio negli Archivi di Stato. Ha fondato e presieduto l’associazione professionale Arch.I.M. – Archivisti in movimento. Alcune sue poesie sono apparse nella rivista Poeti e Poesia e nell’antologia collettiva Distanze Obliterate. Generazioni di poesie sulla rete (Puntoacapo Editrice, 2021). Ha pubblicato studi nel campo della paleografia, della codicologia e della diplomatica. Contrada dello Zodiaco è la sua Opera Prima.
[i] Cervo // Ogni anno [in questa costellazione] / compare una nuova stella, / con le punte nelle corna del cervo.