Su “Exfanzia” di Valerio Magrelli (Einaudi, 2022)
A cura di Angelo Di Carlo
Quella di Magrelli continua a segnalarsi, in maniera più o meno evidente, come una particolare “poesia dello sguardo” in cui sembra imporsi una tensione costante tra “distacco” e “partecipazione”; si potrebbe, anzi, affermare che proprio l’osservazione, con tutto ciò che comporta in termini di distanza e sempre controllata lucidità, sia la modalità stessa della partecipazione, della benevola – per quanto “amara” e disillusa – compromissione con la vita. L’esito è sempre qualcosa di estremamente riconoscibile: una poesia che si costruisce come un guizzo dello sguardo, come uno scatto improvviso della mente, qualcosa, insomma, che bisogna subito sforzarsi di trattenere, di fermare, “prima che sia troppo tardi”, come dice in un testo, tratto proprio dal libro in questione, che vale la pena di riportare integralmente:
Svelto, ché sta chiudendosi!
Se devi dire qualcosa, dilla subito,
prima che sia troppo tardi.
Perché una volta saldata,
calcificata come la fontanella
nel cranio dei bambini,
è raro che la poesia possa riaprirsi.
Se hai qualcosa da aggiungere,
fallo finché sei in tempo.
Poi, niente: se ne andrà per conto suo.
E tu ne potrai scrivere qualcun’altra, se vuoi,
ma senza più toccare quella stessa.
In un altro testo, invece, per diversi aspetti assimilabile a quello appena riportato, scrive:
È la seconda volta in vita mia,
che scordo una poesia.
Mi è apparsa come un lampo,
un tracciato istantaneo, luminoso,
tra miliardi di sinapsi,
tracciato unico
che non ritroverò mai più.
Per questo si parla di folgore,
del suo tracciato.
La poesia è quel tracciato,
sistema di relazioni neurali,
una strada nella corteccia cerebrale
che appare per un attimo e scompare. […]
“Lampo” o “tracciato istantaneo”, la poesia fa la sua comparsa fulminea, improvvisa, e come tale va fissata, prima che possa dileguarsi senza lasciare l’eco di un ricordo, prima che anche lo spunto iniziale si dissolva, si disperda nell’aria.
Nella fattispecie, la scrittura di Magrelli si articola in base alle diverse modalità che lo sguardo, divertito e disilluso al tempo stesso, sempre filtrato e riflesso, può assumere. Talvolta è quello benevolo, complice e comprensivo dell’adulto, dell’ex-fans, altre volte è quello inattendibile di chi si affanna nella ricerca di alibi sempre meno sicuri, attento a costruire meccanismi di difesa sempre più precari; altre ancora è quello tagliente, disincantato e beffardo che non tralascia di indugiare su certi particolari fisiologici che le vecchiaia inevitabilmente comporta, lasciando trasparire, sotto il velo dell’ironia, il senso profondo di un declino certo e ineluttabile, di cui i tanti “effetti indesiderati”, rievocati con farsesca meticolosità, non sono che le dolorose avvisaglie; come dice l’autore in un testo particolarmente riuscito “La vecchiaia è questione di idraulica, / la valvola mitralica che perde, / l’urina che non viene trattenuta, /lacrime”.
Non manca poi il consueto abbandono a un leggero e, in una certa misura, compiaciuto concettismo, con cui si tenta di sfruttare tutte le potenzialità e le possibilità che un iniziale espediente metaforico può schiudere e offrire, e che poggia su una dialettica sapiente e controllata tra l’insopprimibile tendenza alla complicazione logica e la caratteristica leggerezza del tocco; un procedimento in genere godibilissimo, per quanto in alcuni, pochi, casi possa dare luogo a qualche lieve forzatura.
In merito, poi, all’organizzazione del libro, tutta la prima parte sembra interrogarsi sulla persistenza di certi demoni interiori – le ombre , i mostri del passato – , simulando una sorta di atteggiamento difensivo che invano si sforzerebbe di scacciare, di eludere e rimuovere tutti quei nodi irrisolti – i “miserabili legami” – che in quel qualche modo ci tengono avvinghiati al passato. In diversi momenti, peraltro, sembra imporsi una sorta di equivalenza tra scrittura e “malattia”: si scrive perché qualcosa di segretamente morboso continua a richiamarci e la scaturigine della poesia può essere, così, individuata in certi residuati psichici risalenti all’infanzia. In proposito proprio i versi posti ad apertura del libro possono risultare estremamente eloquenti:
UNA VARIAZIONE DA ADDIO AL CALCIO
Palleggi e palleggi
in un pomeriggio d’estate, e di calore.
Solo col suo pallone e le sue leggi
quel bambino passava ore e ore
per superare il numero di colpi prefissato:
non allegro, ma assorto,
completamente dedito allo scopo assegnato.
Era un acconto di felicità, o conforto,
verso il futuro, verso i giorni avversi.
Forse per questo, adesso, scrivo versi.
Le ombre del passato, come scrive l’autore in uno dei testi contenuti nella raccolta, “rifiutano di farsi seppellire”, tornano, ci assillano, “intralciano il cammino”, rendendoci goffi come strambi carcerati “con una palla al piede immaginaria”; ogni tentativo di rifuggirvi non può che risultare vano, essere destinato a un inevitabile scacco e tradursi in una ben nota tortura, a un incessante rimuginio tutto interiore e consistente nella condanna alla ripetizione. Qui, all’interno di questi testi, piuttosto che ficcare lo sguardo nell’abisso, si tenta sistematicamente di distoglierlo da tutto ciò che potrebbe rivelare a noi stessi il nostro volto più autentico e pauroso. In proposito si consideri il seguente testo:
Le case che uno lascia: vuote voragini,
nude, senza più oggetti.
Oscene, anzi, ecco,
oscene, e osceni noi
a guardarle
come si guarda un genitore nudo.
Gìrati, presto, prima che lui stesso
possa guardarti.
Non farti mai guardare da una casa
che hai denudato.
“Le case che uno lascia”, insomma, così nude e severe, sono il nostro scheletro, sono il vuoto che ci portiamo dentro, la nostra immagine più vera, quella che ci perseguita e da cui continuiamo a fuggire. Peraltro, con l’incedere della vecchiaia (dell’exfanzia, appunto) diviene più difficile tenere a bada i propri mostri interiori, ricacciandoli indietro, e sempre più spesso questi finiscono per inchiodarci,, riaffiorando e facendo capolino persino sulla pagina, nella scrittura che, pure, in certi momenti, poteva aver rappresento lo spazio prediletto per la messa a punto di un tenace meccanismo di difesa, un tentativo costante di depistare la propria ombra. Il meccanismo mostra ora segni di cedimento, crolli e malfunzionamenti: è “questione di idraulica” e si comincia a “perdere acqua”.
Si è sempre più fiacchi e indifesi dinanzi ai morsi, agli attacchi, alle virate dei demoni interiori e la verità, pervicacemente occultata, ritorna e sbuca in forme propriamente fisiologiche – pus, escrescenze, tumescenze -, diviene suono, ombra, si sovrappone alle cose, procurandoci una qualche distorsione dello sguardo che, tuttavia, schiude delle inedite potenzialità percettive.
In alcuni momenti, peraltro, questo incessante movimento di fuga vuole scientemente rivelare, senza mai dismettere l’abito dell’ironia, la persistenza di una qualche ansia di regressione, di annullamento e ritorno al buio iniziale, nell’antro dell’origine, dove tutto ciò che rimanda alla realtà esteriore non può che giungere come sfumato, indistinto, ovattato, come dentro una nebbia o una febbre. In particolare, si considerino le seguenti porzioni testuali, in cui sembra essere postulata una beffarda equivalenza tra annullamento e felicità:
[…] La lunga scalinata, nella notte, fino all’Ara,
su in Cielo. Natale: un antro sonoro,
di tenebra canora e protettiva.
La musica, lei ancora,
serpente musicante, scivola
accanto a me facendo ombra,
facendo spirali di suoni,
facendo una Vigilia di lente vibrazioni.
E poi:
In certi gabinetti
con la cellula elettrica
la luce scatta non appena si entra.
Ma dopo un po’,
se si rimane fermi,
ritorna il buio
(mancando il movimento, il meccanismo
viene portato a credere
che la stanza sia vuota).
Così resto felice nelle tenebre, sorpreso
dalle tenebre, sorpreso per l’assenza,
finalmente felice nell’assenza.
E infine:
Sto qui nel letto. Febbre. Ma sto bene.
Rabbrividisco, ho piedi e mani ghiacci.
Eppure, in questo buio, solo solo,
mi sento libero: la febbre mi protegge.
Fuori, le bombe e i camion sulla folla.
Io invece, col febbrone, sono assolto.
Mi sento riformato dalla vita.
Vi è poi tutto un gruppo di testi che si presentano come vere istantanee, vivide e sempre memorabili. Anzi, sarebbe il caso di affermare che proprio l’essere memorabile possa considerarsi uno dei tratti distintivi, dei pregi, della poesia di Magrelli, una peculiarità che i versi degli altri poeti sembrano avere smarrito, stentando a lasciarsi ricordare, a superare il gap, a sfondare, ad abbattere il muro che si frappone tra la pagina e la memoria emotiva del lettore. Qui, al contrario, come si accennava sopra, l’esito è sempre qualcosa di riconoscibile e capace di imprimersi nella memoria; in particolare, il lettore ricorderà certi esordi eccezionali come “Ho spesso immaginato che gli sguardi / sopravvivano all’atto del vedere” o “Mi lavo i denti in bagno, / ho un bagno, / ho i denti, / ho una figlia che canta”. Si leggano, poi, alcuni testi, tratti da quest’ultimo libro, in cui lo sguardo di Magrelli, acuto e indulgente, riesce propriamente a catturare, con una specie di sofferta benevolenza, alcuni momenti – talvolta dei semplici flashes – che non tralasciano di coinvolgere anche profondamente, senza slanci patetici, il lettore:
Mio figlio sfreccia sugli sci, nella foto,
e sfreccerà per sempre.
Io lo guardo e ne soffro,
sulla tela del tempo lacerata
dai suoi sci.
Perché non ne gioisco?
La pista sta finendo,
ma non è per questo.
È che lui mi lascia indietro,
è che lo vedo allontanarsi da me,
è che mi vedo sempre più lontano.
E poi:
Ci incroceremo in treno,
a metà tratta,
tu verso Sud, io al Nord,
sulla stessa linea,
ma senza neanche accorgercene.
Sarà un momento,
i due vagoni passeranno vicini,
senza neanche accorgersene.
Mentre lo scrivo, mi riempio di tristezza,
e invece bisogna sorridere
all’infinita crudeltà della vita.
Altrove, inoltre, è proprio di fronte a una comune immagine della sofferenza che i propri, minimi, traumi, le proprie paure affiorano decisi e in superficie; in quei casi, chi parla all’interno di queste poesie, magari tradendo – o volutamente esibendo – un sotterraneo senso di colpa e una qualche tendenza autopunitiva, è colto dal timore riconoscersi e identificarsi in ciò in cui lo sguardo si imbatte. Si legga, a titolo esemplificativo, il seguente testo:
Dorme in un sacco a pelo
sopra la scalinata della chiesa.
Le birre, tutto intorno,
fanno da candelabri.
Ho sempre il terrore di essere io.
Risulterà chiaro, peraltro, come, anche ritraendo momenti esterni, lo sguardo sia sempre riflesso e centrato su se stesso.
Su tutto domina, infine, il demone dell’afasia – sia pure espresso con incrollabile grazia -, la segreta paura che ogni slancio poetico stia esaurendosi in maniera irreversibile; sembra, in altri termini, prendere il sopravvento proprio l’assurdo timore di cedere alla morsa inesorabile di un remoto inghiottitoio, di rimanere invescato entro una sorta di limbo afasico. Ed è proprio questo, del resto, il significato più autentico del titolo, exfanzia, come ha precisato lo stesso Magrelli, nel corso di un intervista condotta da Igor Pelgreffi, dicendo: “Per me quell’ex sta a indicare un’espulsione dal verbo che significa parlare, un’espulsione da sé”.
Da un tale scenario sempre più amaro, dunque, così come viene tratteggiata la vecchiaia (l’exfanzia), perfino la poesia sembra ormai rifuggire, inducendo l’autore ad affermare desolato: “Ieri ero preoccupato, perché in tutto, / dopo quasi otto anni, ho scoperto / di non avere scritto neanche cento poesie”.
© Fotografia di Leonardo Magrelli