Gianluca Pavone
Tre inediti
Prose poetiche
*
STANZA DEL SECOLO
Fuori di noi la bocca del pesce-gatto, branchie nella boccia rotonda dove non nevica. Insieme
dormivano l’acqua e il tempo, per raccogliere pietre piatte da lanciare per contarne i rimbalzi, giorni
che tatuavano visi nel per sempre. I minareti del viaggio a Tunisi, l’arancio pieno nella bocca del
fuoco che ci parla, l’ennesimo passero sull’orlo del filo della biancheria che osserva negli occhi il
movimento pensato. Sventoli ancora il tuo luogo sul viso del ventaglio, la tua bandiera del silenzio.
Scorci sepolti che riaffiorano nell’occhio, nella verticale del gatto. E poi garriti di rondini, moti
incoerenti, intimità coperte di mosche nella stanza della vacca: coda che vorticando scaccia ogni
rogna, rametti, venti che assistono ogni nascere nella sozzura. Il mio ignoto nascosto dentro il corpo
del dottore, un alone accennato dietro la colonna dorsale Jonica.
Infanzia sbattuta in faccia dal giallo dell’uovo nel bicchiere la mattina, dal mangime che piove
dall’alto come una pioggia dura nell’aia.
Il ritiro nella giacca, nella stanza, al primo vento che muove le giunture dell’altalena sul piazzale
della sera.
*
C’è qualcosa in fondo alla bocca, forse un rifugio.
Qualcosa che pulsa nell’occhio. Geometrie su geometrie resistono al principio di glaucoma
scacciato a dosi di preghiere e mirtillo, semi di canapa.
Nuoto senza stile negli ultimi pensieri della notte, gradazioni di buio che attraccano in porti d’alba
che svelano tutti i contorni.
A sera consumavo spiccioli di sogni lanciandoli da affacci affollati, ma c’era troppa luce nei
lampioni che annullava ogni danza di pensiero che si adagiava fresco sulla ringhiera. Che fluttuava
sull’acqua del Kansas tra i mulinelli del tornado, tra trasparenze infrangibili, cleptomanie primarie
per un verso di Rimbaud. Decise idee del nero nei corpi o su un faggio che tiene lontani i fulmini
nei disegni a cinque anni.
Gesso e unghia trascinati pescando a strascico sulla lavagna i pori lanuginosi che legano teorie,
insiemi.
Ed essere qui e altrove nel segno dei gemelli, nomi taciuti nei cortiletti, fra le erbacce.
La terra che svela la testa delle rocce, lo spazio che ci vuole distratti.
*
Ci sono cime indifferenti, alberi distratti dal più caldo dei raggi che si allunga. Non credere di
essere al sicuro dietro la tua porta: ogni scheggia di legno non ti farà più robusto, inattaccabile.
Sei come il piccolo animale che dorme nel suo regno di pelo e nastrini, sotto il ciliegio. Chissà
dov’è, cos’è ora la tua culla, in cui passasti le notti delle prime impressioni. Le api che giravano
sulle braccia e sugli occhi, tutto quel bianco siciliano che circondava i battiti.
Tu sei quel primo istante, intrappolato.
Un istante solo che si stacca dal resto e che è già storia, documento. Il tuo. Istante che è decisione
senza intoppi, paure.
Dimmi il tuo colore, quello buono. Quello che fa scintillare gli occhi, quello in cui fosforeggiano
i sogni sbranati dal mattino. Ti dicono “fai respirare le pareti” e tu stacchi tutti i chiodi, il crocefisso
più alto. Le pareti allora ti respirano i capelli e te li strappano. Soffiando entrano nella bocca
dalla fessura che chiama il giorno dopo la notte.
Insiste, chiede asilo questo soffio che mi copre le spalle quando spengo ogni luce.
Tutto hanno visto i miei occhi:
ogni strappo.
ogni ombra.
ogni nascita.
Fotografia di proprietà dell’autore.