Giovanna Cristina Vivinetto — Inediti

 

Giovanna Cristina Vivinetto (Siracusa, 1994) vive a Roma, dove si è laureata in Filologia moderna all’Università La Sapienza con una tesi sulla poesia di Franco Buffoni. È insegnante di ruolo nella scuola secondaria. Dolore minimo (Interlinea, 2018) è il suo libro d’esordio, primo testo in Italia ad affrontare in versi il tema della transessualità e vincitore di numerosi riconoscimenti, tra cui il Premio Viareggio Opera Prima. È stato tradotto in lingua spagnola e in lingua inglese, vincitore negli USA del Malinda A. Markham Translation Prize e semifinalista al PEN America for Poetry in Translation. Ha inoltre ispirato la serie televisiva Prisma, disponibile su Amazon Prime Video e, dal 2025, su Rai Play. Dove non siamo stati (BUR Rizzoli, 2020) è il suo secondo libro, vincitore dei premi Città di Massa, Casentino e San Domenichino, attualmente in corso di traduzione per la pubblicazione negli USA. Apparsa in molte antologie in lingua e in traduzione, è stata inserita tra gli autori dell’antologia destinata ai licei Controcanone. La letteratura delle donne dalle origini a oggi (2022), curata da J.L. Bertolio per Loescher Editore, ed è stata inclusa tra le quarantadue voci femminili nel volume Parole d’altro genere. Come le scrittrici hanno cambiato il mondo (2023) curato da Vera Gheno per l’editore Rizzoli.

 

 

 

*        *        *

 

 

Non avevo che qualche ossuto strumento
per parlare – stare insieme agli oggetti,
farne cunicoli, canali di scolo dove
scorrere, diluirmi o restare in silenzio dilatandomi
dentro l’acqua. Potevo chiamarli
oppure allontanarli ma non potevo uscire da me.

Per guardare c’erano cose minuscole
che non gridano vendetta – piume, spille,
fogli dove talvolta si screziava un verbo.
Potevano vedermi per come ero, vera
e imprendibile, veloce come margini di bufera.
Eppure come ero, non lo ricordo più.

Attraversare le stanze, ripercorrerle
avanti e indietro, piegarsi sul pavimento.
Nel movimento la polvere si stacca dagli oggetti,
si innalza verso un punto di pace tra la finestra
e il buio. C’è stata una tristezza qui, è vero,
e ora sai soltanto la sua distanza, la nebbia
che si è posata su ogni cosa vista, toccata.

Anche oggi abbiamo avuto corpi mortali,
corpi difettosi ma alti, pieni di luce e di vento.

 

 

 

*

 

 

Avere piccoli intenti. Non desiderare
più di quello che la gioia del corpo contempla.
Un sonno lieve che lavi ogni dispiacere.
Uno scranno nell’erba o un altare di foglie
piegate leggermente dal vento. Un tempo
per indovinare il fondo dell’acqua,
se in quel freddo riusciamo ancora a toccare,
e un tempo, meno scandito, dove
anche il male è uno strumento – affilato, necessario.

Dire a ogni sagoma che si muove con te
nel conflitto materiale delle cose, nella polvere
innalzata dal sangue, dire come fosse
tuo padre, tuo fratello – che non ti ha
perduto, non ti ha perduto.

Andare nel fitto dove si perde la cognizione.
Ciò che ci è stato sottratto, lo strappo contropelo
non possono più far scattare le serrature del pensiero.

A tentoni nel buio inseguire la stella polare di un nome.

 

 

 

*

 

 

Per tutta la mattina ha piovuto
dal fianco terroso di un’acqua sporca
ed io non ero accolta in nessun suono.
Il cielo si è aperto, poi si è compattato
con un rapido colpo di polso tra le nubi.
Il riposo si scava salendo verso ciò
che da limpido diventa rarefatto, trema
e si vede per il suo togliere luce alla luce.

Abbiamo ancora tempo e per avere
più tempo cerchiamo tra le cose
che non ci sono più. Anch’io una volta
ho pianto di nascosto premendo il volto
contro la curva polverosa del sonno.
Poi è venuta una notte più oscura del linguaggio.
Poi la realtà si è imposta strattonando il dolore.

Rastremo questa tristezza fino a farne
un tondo perfetto di sfera, una terra
più piccola da abitare. Il cielo scorre,
ciò che era vicino di colpo si allontana.

Lo spazio è di nuovo cupo, profondo
come nei sogni in cui brevemente si svela a noi
il futuro.

 

 

 

*

 

 

L’acqua placa lo sguardo, crea una dimora
dentro la disperazione. Per nascondermi
o fuggire cercavo una sponda, un guado
dove sedermi o scorrere senza significato.

C’è una forma di pulizia anche in questa tristezza.
Una precisione che scarnifica. Io che ti tolgo da me
con il gesto di scrostare i panni nella corrente.
Posso abituarmi a questo se lo ripeto tutti i giorni.
Non mi interessa il senso ma il fatto preciso
dentro il gesto: pulire per rimuovere la crosta
di dolore. Pulire per molare la sofferenza.

L’acqua apre uno squarcio tra la tempia
e l’anca: devo ammettere che sono rimasta sola
perché tu sei esistito e ora non sei più.
In cosa posso credere, a cosa posso arrendermi
se anche il mare in cui scendo non si oppone
ma asseconda le gambe fino a dove riesco a toccare.

Eppure non trovo riposo finché il corpo
non indietreggia dentro l’acqua, finché
non prova questa paura come una scintilla
aperta in ogni vena e solo allora, così vicina al nulla
e al tutto che questo lutto ha scoperchiato,
solo allora il corpo può assottigliarsi,
diventare spigolo, foglia, foglio di carta,
affondare e riaffiorare dal buio
fino a ritornare parola.

 

 

 

*

 

 

Sentire la tensione tra la casa
e i palazzi, accettare che qualcosa si sfaldi
nella nebbia di mattoni e più avanti
dove saltano le giunture dei muri, la linea
grigio-pece del marciapiede.

Mi apro alla nudità della materia,
al suo cieco assedio – l’urgenza
che debba esserci un corpo dentro la storia
per rilevare lo sconforto dello spazio,
il fatto che i luoghi ci chiedono un ascolto.

Abbiamo lasciato qualcosa indietro, lo sappiamo
e per questo torneremo – torneremo
e non sapremo più niente. Perderemo
la contingenza, l’altezza – ciò che, attingendoci,
non ci ha mai disgiunto.

Non c’è abbastanza luce per pensare.
Tra una verità e la sua rimozione
si distende la solitudine di chi guarda
profonda e compatta come l’aria notturna che ci sovrasta.

 

 

 

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© Fotografia di Francesco Finotto al Festival I Fumi della Fornace 2025.