Stefano Modeo, “Partire da qui” (Interno Poesia, 2024)

Nota di Gisella Blanco

 

Se il paesaggio – e la sua trasposizione letterale e letteraria – può essere inteso come un paradigma ermeneutico della poesia, è legittimo ritenere che possa essere anche un elemento focale della poetica autoriale, sia qualora si mostra presente in modo frontale ed esplicito, sia quando sembra negato, lateralizzato, apparentemente annientato o manipolato/trasformato/brutalizzato o, ancora, quando è reso così meraviglioso da sembrare irraggiungibile. E se gli esempi che si possono fare a tal riguardo sono infiniti e, per altro, non riducibili a una sola e univoca “modalità paesaggistica” – si pensi a Zanzotto, Dal Bianco, Bertolucci, Caproni, Pasolini, Pavese, Pascoli andando ancora indietro nel tempo -, appare d’uopo osservare come nelle nuove generazioni poetiche il paesaggio, con le accortezze interpretative suesposte e nella piena consapevolezza della irriducibilità del fenomeno poetico a qualsiasi categorizzazione, sia pure quella generazionale (insidiosissima, a parer di chi scrive ma, anche per questo, sempre vivamente nonché polemicamente interessante), quando è nominato, descritto, suggerito o inerito, compartecipa dell’io autoriale e della sua proposta di visione del mondo, da intendere anche – almeno a volte – come punto di vista da cui osservare l’insieme (insieme inteso sia come complessità e complesso delle cose che, con uno slittamento semantico, come possibilità di uno “stare insieme” nell’esistenza, una convivenza che riporta all’idea di societas).

Stefano Modeo, nel suo ultimo libro, Partire da qui (Interno Poesia, 2024), con una accurata selezione di poesie scritte – per sua stessa ammissione nelle note finali, altra scelta icastica di poetica, non solo formale e non solo editoriale – tra il 2017 e il 2023, anni per altro di grande trasformazione sociale collettiva, parte da un punto preciso, determinato e non fraintendibile (ma ciò non implica un possibile ragionamento per sineddoche che induce o conduce a estendere il detto ad altro, ad allargare concetti, posti e personaggi, finanche l’io narrativo e quello inconscio): il suo Sud, Taranto e la Puglia, “a sud di nessun dove” (ogni sud si sente così solo da non vedere altro, da non vedere a volte nemmeno oltre quella siepe leopardianamente insidiosa che è la solitudine, la rabbia, la distanza). Un punto da cui “partire”, nella duplice accezione di iniziare ma, anche, di andarsene, lasciare, abbandonare (e l’abbandono è sempre, nel caso della terra natale, un po’ reciproco).

I primi testi appaiono come dei quadretti impressionistici, puntiformi, macchiaioli (“la macchia – disse un esponente fiorentino dei macchiaioli, Signorini – non fu altro che un modo troppo preciso del chiaroscuro, ed effetto della necessità in cui si trovarono gli artisti d’allora di emanciparsi dal difetto capitale della vecchia scuola, la quale, ad un’eccessiva trasparenza dei corpi, sagrificava la solidità e il rilievo dei suoi dipinti”), che iniziano con un almeno apparente ritratto paesaggistico per condurre il lettore (ma sembra che l’io voglia condurre il sé allo stesso esito) verso lidi apertamente antropologici: “risale per le vie una verità,/un risentimento delle case,/delle strade. Ma la speranza/non si prende i suoi torti,/restiamo ostili con desiderio/se il vento riprende, nostro tormento”.
Chi è nato al sud, può riconoscere immediatamente quel sentimento di straniamento a cui si compartecipa – volenti o nolenti – nei luoghi del sole che spacca le pietre, inaridisce la terra ma si posa su mari e monti propagando una luce abnorme, insaziabile.

I primi personaggi di Modeo possono appartenere ad ogni tempo, come il sud che appartiene sia alla Magna Grecia che ad ogni sua contemporaneità: pescatori; immigrati; piccole città fondate da e nelle case private, dirupate; donne che si abbracciano e diventano madri e che hanno come contraltari (nel bene e nel male) uomini e chiese; chiese ovunque; battigie dove stendersi o in cui approdare (vivi o morti, “Così si vuole:/che i morti sian vivi e i vivi già morti”); cristi minimi e/o sacri che si relazionano con le loro croci; disastri ambientali (i riferimenti specifici si trovano nelle note del libro) che sono meteore e meteoriti dei più grandi problemi cosmologici che riguardano da sempre l’umanità.
“Dovevano restare muti/dietro un’idea pura”: estendendo la riflessione contestualizzata nei fatti dell’ex ILVA a quella dell’atavica questione meridionale, tale locuzione appare come un diktat autoimposto ed etero imposto – insomma quasi concordato de facto – per chi nasce al sud.

Una lontananza nella lontananza, quella dell’autore, anche lui “spatriato” per dirla con Mario Desiati (che, a sua volta, ha citato Raffaele Carrieri, presente in questo libro): Modeo vive al nord ma sopravvive nel suo sud e, da questa lontananza, ha una visione lucidissima ma non ancora spietata della sua terra d’origine. Una “macelleria” in cui l’uomo carnefice è perfino compatito dalle altre bestie, vittime di un destino comune ma la cui percezione non a tutti è concessa. Una macelleria, per l’appunto, non il “macello” di Ivano Ferrari ma quel posto dove la morte si compra al banco.

In questo contesto dalle tinte forti e dai sentimenti disperanti e teatrali (teatrali non nell’esposizione ma nell’esito concettuale, lontano anni luce, per esempio, dall’indolenza eroicomica romanesca, per fare un esempio a contrasto), non manca l’erotismo, quella sporcatura necessaria e voluttuosa che appartiene ai vecchi come ai giovani e che espone fluidi corporei e pensieri indicibili sul piatto comune di un’ostinazione perseverante alla sopravvivenza e all’esperienza, che riporta ai contrasti generazionali, ai rapporti filiali, alle basi del vivere sociale.
Torna la prima persona singolare nella seconda sezione, Pater, tra l’afflato intimistico e una sua costante traslazione nella collettività, con l’emersione di plurime dicotomie senza necessità di retorici sincretismi ma con la proposta di quell’adattamento esistenziale capace di convivere con le contraddizioni etiche ed estetiche: “dal margine/è più semplice immaginare di andarsene”.

L’invocazione/preghiera del padre diventa anche condanna (e autocondanna).
Differenza e ripetizione deleuziane rivivono nel cuore dell’emigrato che rimane in parte, idealmente, nella sua terra, e della sua terra che rimane in parte, idealmente, in lui e nella sua nuova vita.
Nella terza sezione, Il segreto di Pulcinella – lo sanno tutti ma non si dice -, maschere di pirandelliana inclinazione che sono anche animali favolistici, miti e antieroi ricreano un’atmosfera popolare, diffusiva, esacerbata pur nello stile pacato dell’autore.

L’ultima sezione, Nostalgia, non a caso rievoca il ritorno impossibile, il dramma greco che continua a ripetersi nella storia, le altre dualità come restare/tornare, amare/tradire, andare/tornare, passato/futuro (è il presente ad essere sempre una chimera per la gente del sud). Le rime e le assonanze delle chiuse lasciano trapelare una tendenza alla litania, al presagio che minaccia l’imperativo destinale e alla sua interpretazione corale, un canto o un pianto di tutti.

Lo stile di Modeo è asciutto e apparentemente lineare ma lascia trapelare suggestioni ermetiche sorvegliate dal minimalismo contemporaneo (molto presente al Nord), non rimanda al barocchismo di alcune scritture del sud ma non è sempre esplicito né eccede nel realismo o nella narratività, delineando così una voce personale con un forte sostrato di echi del Novecento (Scaffai parla di “funzione Montale”).

L’ultimo testo ritrae la gente che parte in treno. Il treno è il mezzo tipico dei viaggi della speranza dal sud al nord, viaggi infiniti, faticosi, sempre un po’ tristi, di quella tristezza che ha a che vedere con la sconfitta e con la tensione alla rivincita, con la profonda mancanza di ciò che si lascia e con il desiderio di edificare la vita altrove.
Ma ogni abbandono è un allontanamento dell’io dal sé, uno spostamento etico, spirituale, finanche religioso nel senso più ampio possibile. Se “le punte degli scogli” segnano un confine, quel confine (con tutti gli scogli, le loro acuzie, i piedi feriti nell’acqua salata, la sensazione di sentirsi stupidi per essersi feriti a quel modo) è tutto interiore e, come tale, ridiscutibile, ritrattabile, riformulabile, se non fosse che chi parte, molto spesso e in termini non empirici, non può più tornare.

 

 

Gisella Blanco

 

 

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Periferie

 

I pescatori ignorano la città
trascinano sacchi di molluschi
sulle spalle, succhiano gusci interi
di acqua, iodio, muschi, licheni.
Montano su un ponte di barche,
come piccoli grilli, uomini neri.
Usano limoni contro il dolore
del fegato, disinfettano il sapore.
Bevono e dopo aver preso il mare
corrono nelle camere da letto.
Vivono come il plancton in seno
alle acque – alle donne – al veleno.
Finché dura l’inganno della fame
fuori da ogni casa si spegneranno
i grandi sogni, i canti, le praterie
nel vuoto ostile delle periferie.

 

 

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Nel vicolo

 

Seduti con le ginocchia nere,
non sanno cos’è un bosco di faggi,
né come fugge una volpe.
Ma in questa, di foresta,
sono come uccelli. Dai resti
dei cantieri fischiano al giorno
il canto misterioso del loro mondo.
In due nel vicolo, in sella alle moto,
s’involano ora sfiorandosi appena:
nella corsa impennata in quella via
si sentono meno incapaci
se si fa presto a imparare a migrare.

 

 

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Macelleria

 

La lama del coltello segnò
la gola magra dell’agnello.
Poi l’esofago, il budello,
la colonna. Per l’antica festa
si assicurarono che il cervello
fosse intatto nella testa.
Dicono che mentre sgolava
alla corda, il cuore sia esploso
nel petto e non abbia sofferto.
Ma le bestie, si crede in paese,
sanno il futuro, per questo
dell’uomo non se ne curano.

 

 

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Un posto

 

Datemi un acero dalle radici profonde
per i figli di Alfredo venuti a cercare
lavoro in questi giardini, sulle colline
fra statue di gesso e limpide fontane.
Che possano qui seppellire suo padre
che possano portargli dei fiori. Datemi
un acero dalle radici profonde nei giorni
di sole, lontani dal mare, quando si muore.

 

 

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Noi siamo dove non ci vedete

 

Dalle torri sulle scogliere, dalle fessure
i nomadi turchi in punta sulle prue
venivano per il pesce.
Gli ulivi spianati dai caterpillar
allungarono l’orizzonte e le capre
per prime si persero nelle gravine.

Ora, mentre fuori la tramontana
spinge i remi di una galea,
la città vuole rifare le sue strade
ma nessuno sembra capire né avvertire
sotto i colpi alle ginocchia, alle caviglie
che è già ridotta in polvere di conchiglie.

 

 

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Stefano Modeo vive e lavora come insegnante a Treviso. Ha pubblicato le raccolte di poesie “La Terra del Rimorso” (ItalicPequod 2018) e “Partire da qui” (Interno Poesia 2024), opera vincitrice del Premio Tirinnanzi 2024. Ha curato le antologie di poesie di Raffaele Carrieri “Un doppio limpido zero” (Interno Poesia 2023) e di Pasquale Pinto “La terra di ferro e altre poesie. 1971-1992”. È coautore del libro “Conversazione” (Industria&Letteratura 2023) insieme a Paolo Febbraro. Compare nel volume collettivo “Poesia contemporanea. Sedicesimo quaderno italiano” (Marcos y Marcos 2023); nelle antologie “Abitare la parola – Poeti nati negli anni ’90” (Ladolfi editore 2019) e in “I cieli della preistoria. Antologia della nuovissima poesia pugliese” (Marco Saya 2022). Fa parte della redazione del blog Universo poesia – Strisciarossa e si occupa di poesia italiana contemporanea per la rivista di critica letteraria norvegese Krabben.

 

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© Fotografia di Lorenzo Ferraro.