Il misticismo impolitico nella poesia di Cristina Campo
«Ora rivoglio bianche tutte le mie lettere,
inaudito il mio nome, la mia grazia richiusa;
ch’io mi distenda sul quadrante dei giorni,
riconduca la vita a mezzanotte.
E la mia valle rosata dagli uliveti
e la città intricata dei miei amori
siano richiuse come breve palmo,
il mio palmo segnato da tutte le mie morti.
O Medio Oriente disteso dalla sua voce,
voglio destarmi sulla via di Damasco –
né mai lo sguardo aver levato a un cielo
altro dal suo, da tanta gioia in croce».
Così scrive Cristina Campo nella poesia Ora rivoglio bianche tutte le mie lettere[1] che, meglio di qualsiasi altra, racchiude una vocazione al silenzio. Un silenzio che, tuttavia, è da intendersi come ricerca dell’essenzialità, sforzo di far coincidere forma significato, restituendo al linguaggio il proprio valore. Le poesie di Campo sono infatti caratterizzare dalla tensione verso una verità che è abbandono, svuotamento dell’ego.
La parola diviene così il mezzo per praticare una disciplina di liberazione dall’io, che richiede, anzitutto, che il linguaggio venga restituito al proprio originario compito: toccare il nocciolo delle cose, ponendosi in ascolto di esse. E proprio questo “porsi in ascolto” costituisce la direzione della scrittura dell’autrice, che si caratterizza per una forte spinta mistica. Spinta presente nella vita stessa della poetessa, che scelse la non visibilità, il rifiuto delle logiche mondane, per dedicarsi alla scrittura da anacoreta. Nata nel 1923 a Bologna e segnata, sin da ragazzina, da gravi problemi cardiaci, la Campo condusse un’esistenza al di fuori dei circuiti della notorietà letteraria, conoscendo tuttavia i maggiori intellettuali dell’epoca, dal traduttore Leone Traverso, a Mario Luzi, per poi legarsi sentimentalmente a Elémire Zolla, filosofo delle religioni e studioso di esoterismo, che molto condivise con la scrittrice, restandole accanto sino alla morte, sopraggiunta a soli cinquantatré anni.
La biografia della Campo è segnata dunque da una profonda ricerca spirituale, che approda ad una fede cristiana pura, vicina all’ortodossia, della quale ritroviamo tracce nello stile. I versi si fanno canto di ringraziamento che intende toccare l’essenza immateriale delle cose, mettendo in luce l’inconsistenza della vita su questa terra. È in tal senso che è possibile individuare un’analogia profonda tra la poesia di Cristina Campo ed il pensiero di Simone Weil, filosofa e mistica francese di origini ebraiche che, a cominciare dalla riflessione sull’ingiustizia sociale di matrice marxista, si accosta alla spiritualità cristiana, scegliendo tuttavia di restare fuori dalla Chiesa sino alla fine.
Weil, proprio a partire dall’analisi dell’ingiustizia consustanziale al mondo moderno e alla logica della catena di montaggio e della reificazione dell’essere umano, sposta quindi la propria riflessione sul piano metafisico, ritenendo che l’unica strada per sovvertire il dilagare del male nel mondo sia l’impolitico. Quest’ultimo concetto indica perciò la negazione della politica, prassi ormai decaduta e ridotta, irreversibilmente, a gioco di potere e a spirale di violenza.
Uscire dalla politica e porsi in un’ottica impolitica per Weil significa, altresì, teorizzare una condizione nella quale la logica del dominio non può avere la meglio, come storicamente avvenne nelle prime comunità cristiane, che tutto mettevano in comune, senza alcun attaccamento ai beni materiali o ai ruoli sociali. Al pari della Weil, Cristina Campo invoca e ricerca, così, una condizione impolitica e lo fa con i versi, approdando non ad un luogo fisico o ad una configurazione storica, bensì alla dimensione dell’anima.
Ed ecco che il nome diventa adesso inaudito, in quanto nessun linguaggio basta più a esprimere l’esperienza pura del bene, mentre gli amori -simbolo delle passioni carnali- vengono chiusi nel palmo della mano, come una soglia che si chiude e si spalanca verso un altrove. L’elemento simbolico diventa difatti il mezzo espressivo attraverso cui la Campo annuncia la dimensione dell’anima, alla quale si arriva per approssimazioni, per immagini miste a silenzi, proprio alla maniera della teologia negativa, che tanto ha influenzato anche la filosofia di Weil. Poesia riflessiva e immateriale, quella della Campo è una scrittura tutta rivolta al cielo e tesa ad incarnare nel linguaggio la sofferenza e la resurrezione, attraverso un distanziamento dalla materialità delle cose. I versi divengono, così, significati che non si esauriscono nella parola e che invitano, costantemente, a rivolgere lo sguardo verso quel Cielo che già si trova nel profondo di noi stessi.
Lucrezia Lombardo
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[1] C. Campo, dal canzoniere Passo d’addio, Vanni Scheiwiller, Milano 1956.
Fonte della fotografia di Cristina Campo.